PALERMO – “Lineare, logicamente sostenibile, attendibile”. Così il giudice Simone Alecci descrive la collaborazione di Giovanni Ferrante, boss dell’Acquasanta. Ed è per questo che lo scorso ottobre Ferrante è stato condannato a 8 anni, riconoscendogli l’attenuante della collaborazione.
Ferrante credibile lo è anche anche quando parla dei fratelli Fontana, che però sono stati assolti. Dice la verità perché il ruolo mafioso dei Fontana è storicizzato. Non attuale, però. Nel confronto con Gaetano Fontana (pure lui ha ammesso di essere stato un boss, ma ha negato di continuare ad esserlo), sono volati insulti. (Faccia a faccia fra boss pentiti: “Buffone”, “munnizza”).
“L’inevitabile rancore pulsante tra i due non si presta ad intaccare i poli di una verità processuale che esclude un ruolo dei Fontana nella rinnovata geografia del mandamento mafioso”, sottolinea il giudice.
Seppure i suoi suoi toni sono stati “talvolta esageratamente coloriti” e “aggressivi”, Ferrante ha descritto “una realtà delle cose aderente al vero e corrispondente alle risultanze investigative, ma che non si presta a sostenere il teorema della perdurante egemonia dei Fontana nel territorio dell’Acquasanta.
Il suo ruolo di capo è emerso con chiarezza. Era lui a comandare, “autentica testa dell’acqua del programma criminoso”. Un “capo indiscusso tutt’altro che assoggettato alle direttive dei Fontana che sono ormai estranei alle dinamiche del sodalizio mafioso imperante all’Acquasanta”.
Non è casuale che il reggente del mandamento di Resuttana, Sergio Napolitano, “lo propone alla guida alla famiglia mafiosa proprio per il suo brutale carisma dispotico in grado di riportare l’ordine in seno alla geografia di Resuttana”.
Infine Ferrante si è pentito. Il suo racconto è frutto di una “dissociazione consapevole e non ispirata da ragioni di mera convenienza”.