L’altro giorno, Giovanni Paparcuri, era su un campetto di calcio a cinque, nell’oratorio della parrocchia ‘Maria Santissima Madre della chiesa’. E’ un bel ritrovo di anime e corpi. C’è un sacerdote, don Raffaele Mangano, assai amato dalla sua comunità. Veramente lui sarebbe monsignore, ma, se lo appelli con il titolo appropriato, un po’ si schermisce e dice: “Sono don Raffaele”. Ci sono tanti ragazzi e tantissimi bambini, lì. Un luogo, dalle parti di viale Francia, in cui si respira aria pulita.
‘Papa’ – come lo chiamava il dottore Falcone – era lì, per presentare un torneo in tema di legalità. E anche lui respirava quell’aria buona. Ma il respiro può essere una cosa complicata per un sopravvissuto, se in ogni fiato soffia la memoria di qualcuno che non c’è più. La vita di Paparcuri è proprio quella nobile e difficile di un sopravvissuto e, nel caso specifico, di un uomo che nasconde molto male la sua generosità, sotto una corteccia che può sembrare burbera.
E’ un superstite, Giovanni Paparcuri. Era con Rocco Chinnici quando il consigliere istruttore fu assassinato, il 29 luglio del 1983, con altre vittime innocenti e riportò ferite gravissime. Poi, fu scelto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come strettissimo collaboratore. E li vide morire, uno dopo l’altro. Non è difficile immaginare il cratere scavato nel suo cuore. I sopravvissuti delle stragi di mafia, più o meno inconsapevolmente, convivono con un ingiustificato ma acuminato senso di colpa: perché io sono qui e i miei amici no?
Ma c’è anche dell’altro e si racconti, finalmente, senza veli. I dottori Falcone e Borsellino furono avversati – come è noto – da alcuni che poi, magari, si sarebbero dichiarati amici. Non ne riconobbero la grandezza in vita e si accodarono al carro del cordoglio in morte di due martiri. Uno che sopravvive, dato il contesto, diventa scomodo. Perché tutto ricorda e sa dare un senso a ogni nome.
E il ricordo resta indelebilmente stampato dentro, come succede a Giovanni. Citiamo qualche dialogo passato: “Erano due persone straordinarie. Paolo Borsellino sapeva esprimere la sua profonda umanità, con un sorriso, con una battuta. Per Falcone era più difficile. Era introverso, gravato da una pena insopportabile. Aveva nemici dappertutto. Una volta, mentre era in riunione, entrai per comunicargli che un tale l’aveva cercato al telefono. Lui, lì per lì, abbozzò, poi mi prese a parte e mi disse: ‘Papa’, se mi cercano, dici solo che mi hanno cercato, omettendo il nome’. Era evidente che non si fidava di nessuno”.
‘Papa’ continua a fare il suo e molto di più. Ogni giorno, da custode del bunkerino del palazzo di giustizia – lì dove sono stati riprodotti gli uffici di Falcone e Borsellino – accoglie i visitatori, racconta semplicemente quello che è accaduto. E lo fa senza enfasi, senza ergersi a protagonista, tanto che qualcuno, timidamente, gli chiede: “Scusi, lei chi è?”. Solo allora, lui risponde, narrando di sé lo stretto indispensabile, lasciando da parte il dolore.
Eppure, quel dolore non può essere messo da parte. Ti accompagna sempre, se sei un sopravvissuto. Ma, l’altro giorno, su quel campetto parrocchiale c’erano tanti bambini. Si respirava un’aria buona. Giovanni si è guardato intorno, ha sfotticchiato qualche mini-juventino, lui che è interista. E ha sorriso.