Il pentito, un magazzino e i misteri | Quel filo che porta al caso Romano - Live Sicilia

Il pentito, un magazzino e i misteri | Quel filo che porta al caso Romano

Da sinistra Danilo Gravagna, il magazzino al Capo e Davide Romano

I carabinieri avrebbero trovato tracce di sangue dentro un magazzino a due passi dal Palazzo di Giustizia. Potrebbe esserci un collegamento fra le dichiarazioni del neo collaboratore di giustizia Danilo Gravagna, l'intervento dei carabinieri e l'omicidio del trentaquattrenne nato e cresciuto nel rione Borgo Vecchio.

PALERMO – Cosa è successo nel magazzino a due passi dal Palazzo di Giustizia di Palermo? Cosa cercano i carabinieri dentro il rudere al Capo, la prova dell’esistenza di una camera degli orrori? Se è la chiave di un omicidio che gli investigatori stanno cercando allora il mistero si infittisce.

C’erano i militari del Ris, il reparto di investigazioni scientifiche, nel box in tra le palazzine fatiscenti. Un reparto che entra in campo quando bisogna isolare tracce ematiche oppure organiche. Il filo del ragionamento conduce all’omicidio di Davide Romano, il picciotto del Borgo Vecchio trovato nel bagagliaio di una macchina, con un colpo di pistola piantato nella nuca.

Probabilmente è stato il neo pentito Danilo Gravagna a portare i militari fin dentro il magazzino. E lì c’erano tracce di sangue. Non ci sono certezze ed è inutile cercarle fra chi indaga. Il riserbo assoluto sulla vicenda, però, fa capire che si tratta di una faccenda seria. Anzi, serissima.

Gravagna ha lavorato per conto della famiglia di Palermo Centro, mandamento di Porta Nuova. Prima faceva il rapinatore, poi è stato promosso al rango di estorsore. Era andato a chiedere il pizzo ad un imprenditore del Porto che è zona di interesse del mandamento di Porta Nuova. Proprio come Borgo Vecchio dove era nato e cresciuto Romano. Ha fatto una brutta fine Romano: attirato in trappola, interrogato (nel magazzino dove ieri sono arrivati i carabinieri del Ris?), massacrato di botte e infine ucciso con un colpo di pistola alla nuca. Almeno così Vito Galatolo ha ricostruito la tragica morte del trentaquattrenne ritrovato, il 6 aprile 2011, in via Michele Titone, una traversa di corso Calatafimi, dentro il bagagliaio di una Fiat Uno. Era in mutande con le mani e i piedi legati.

L’ex boss dell’Acquasanta ha detto di avere saputo da un amico anche il nome del presunto mandante ed esecutore del delitto: “Lo zio Pietro è stato, Calogero Lo Presti”, ha spiegato ai pubblici ministeri che gli hanno chiesto notizie su uno dei più efferati delitti di mafia ancora irrisolti degli ultimi anni. Calogero Lo Presti allora era il boss che guidava il mandamento di Porta Nuova. Nel 2011 finì in cella in un blitz antimafia dei carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo che fu denominata Pedro, dal soprannome di Calogero Lo Presti, che per tutti era lo zio Pietro.

I racconti di Galatolo sono zeppi di nomi. Forse pure quelli dei complici, coloro che organizzarono “il tranello” per Romano. Lo condussero all’appuntamento con la morte. E forse ci sono anche picciotti del Borgo Vecchio, dove la trentaquattrenne vittima si era messa in affari con la droga. E se fosse una convergenza fra le dichiarazioni di Galatolo e quelle di Gravagna ad avere condotto gli investigatori nel magazzino a due passi dal nuovo Palazzo di giustizia e in altre stalle del Capo? Ipotesi, solo ipotesi.


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