Perché non amo la festa dei Morti - Live Sicilia

Perché non amo la festa dei Morti

Un po' per scherzo, un po' per leggerezza, un po' sul serio. Ecco perché la festa dei morti non mi è mai piaciuta. E a voi?

C’è un acuto elemento di nostalgia, come lo racconta con rara sapienza il nostro Vitogol, nell’incipiente festa dei morti. Ed è una cosa bambina e sopravvissuta di attese, di occhi nel buio che attendevano il tradizionale regalo. I morti – proprio loro – sarebbero arrivati per portare un dono. Avrebbero solcato le dimensioni di un altro tempo. E sarebbero tornati qui, tra noi vivi, per manifestare con un segno tangibile il perpetuarsi della loro presenza.

Ecco, a me questa storia dei trapassati che si rifanno letteralmente vivi mi è sempre parsa bislacca; non mi è mai piaciuta. Da bambino stravedevo per Babbo Natale, sicché quando infine mi comunicarono, con mille cautele, che non esisteva, che era un luogo della fantasia per esprimere gioia e gratuità, mi ci vollero parecchie settimane pur di superare lo choc. La Befana era un’inquilina scomoda dei sogni, con le sue calze strappate, soprattutto perché annunciava il rientro a scuola. San Nicola era praticamente un miserabile – tu ci rimettevi il dentino, lui ti portava appena un soldino – oppure un illuminato precursore della spending review. La Pasqua era un ritrovo immateriale, troppo teologico, troppo raffinato per l’infanzia: se a sei anni non capisci la morte, cosa te ne fai della resurrezione? Giusto la colomba pasquale offriva un addentellato gustoso e pratico a una ricorrenza altrimenti incomprensibile.

E poi c’erano i morti. Nei giorni dell’infanzia, la schiera dei miei defunti era striminzita. Appena un nonno materno che non avevo conosciuto e uno zio disperso in Russia, nei giorni di una guerra feroce. Stavano entrambi in effigie sul comò del salone familiare, accompagnati da un lumino rosso: lo zio con la bustina di tenente della seconda guerra mondiale, eternamente ventenne col suo profilo alla Amedeo Nazzari, però senza baffi; il nonno sorridente nella foto. E lì scoprii per la prima volta che la potenza di un ricordo risiede nella sua fotografia. Ancora oggi, quando ripenso a quel nonno dolcissimo e straniero lo rivedo soltanto con quel sorriso, con quella faccia, con quei capelli.

Nel dì della festa, si pregava il giusto, un ‘Eterno riposo’ che fungeva da preambolo al banchetto. Infine, i bambini aspettavano i regali. Primo dispiacere: al contrario di Babbo Natale, ‘sti morti con me non ci azzeccavano mai. Volevo Big Jim che menava colpi di karate con una pressione digitale sulla schiena? E loro mi impacchettavano la macchinina. Agognavo la macchinina? E loro mi facevano recapitare le bestie della giungla con un improbabile gorilla dall’espressione scimunita. Chiedevano le mirabili bestie della giungla? E loro mi accontentavano con l’anatomia illustrata del corpo umano. Oltretutto, sinceramente non capivo perché avrebbero dovuto disturbarsi tanto. Che gusto c’era a morire, se non risultava possibile rinunciare alle incombenze della vita? Non sarebbe stato meglio telefonare? Chessò: sono lo zio Nino, disperso in Russia, per quest’anno i regali comprateli voi che siete vivi e vegeti, grazie.

Girai il quesito a mio padre. Lui ci pensò e mi rispose: “Forse in Paradiso non hanno il telefono”. Non mi convinse però. Tutta questa faccenda non mi ha mai convinto, né allora, né oggi. Soprattutto per un particolare che con gli anni ho messo a fuoco. I morti sono aumentati con l’età (“I muorti so assaje”). Si sono aggiunti i nonni al gran completo, molti zii, un padre che riposa nel suo palmo fiorito di terra ai Rotoli, un fratello che dorme con i suoi guizzi di cenere da qualche parte nel mio cuore. Ma per me non sono affatto morti. Io li sento, tutti, ancora vivi.


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