Sono tutti lì, con una domanda di salvezza negli occhi. I critici esperti nell’infilzare il prossimo a uso di mondo li definirebbero, con una punta di disprezzo: ‘Cuffariani’. Invece sono soprattutto siciliani che hanno perso la speranza. Per colpa loro, talvolta, per avere votato spesso male, se non peggio. Ma può un errore reiterato sulla scheda diventare il supplizio di Sisifo che portava lassù un macigno, destinato a ripiombare, eternamente, quaggiù?
Sono siciliani, sì. E sono qui, al teatro Don Orione di via Pacinotti, a Palermo, per ascoltare la voce di Pietrangelo Buttafuoco che anticipa il suo ultimo libro “Strabuttanissima Sicilia”, che diventerà uno spettacolo – incipit al “Teatro Biondo – con la regia di Giuseppe Sottile: “Il mio maestro”, dice l’autore. E sono qui, queste anime siciliane colpevoli e innocenti, ferite e indomite, pure per lui, per Totò Cuffaro, che presenta il lavoro dell’amico Pietrangelo. Per Totò – come non smettono di invocarlo – che ha scontato una condanna per favoreggiamento aggravato ed è rimasto impresso nel cuore di molti, nonostante tutto, anche se prebende non può elargirne più, anche se il Cuffarismo regnante è un repertorio di ieri.
Sala pienissima. Buttafuoco non usa il fioretto, va di sciabola, come è suo costume: “Spero ardentemente che il mio amico Claudio Fava prenda un voto in più del candidato del Pd. Metterebbe in moto quel qualcosa che svelerà l’impostura dell’impostura, quel Pd che ha giocato sporco sulla Sicilia”. Non manca la galleria degli orrori del Crocettismo al tramonto, dal folclore alla sostanza. L’antimafia come servo di scena. La foto in spiaggia col costumino. Il disastro della miseria di una terra, che ha raddoppiato il tormento della sua arsura. La cinquantina di assessori. E il peccato originale secondo Pietrangelo che si riferisce a Saro, senza peli sulla penna: “Il ricettacolo del pittoresco, a cominciare dalla sofferta drammatica battaglia per la legalità diventata una pantomima imbarazzante”.
Prende la parola Cuffaro, salutato da un lungo applauso: “La Sicilia ha bisogno di amore, ha bisogno di sentirsi coccolata, di sentirsi presa per mano. Mi impegnerò perché il centrodestra possa tornare a essere protagonista, sperando che si possa fare ancora meglio del passato”.
E ancora: “Non passa giorno in cui la gente non mi fermi e non mi abbracci, sente il bisogno di sentirmi vicino, eppure sono un ex detenuto, un ex potente, un ex re. E lo fa non solo perché mi vuole bene ma perché non ha più modo per parlare con nessuno”.
Sopra un banco, appoggiato a un muro, le copertine di ‘Strabuttanissima’ che ai distratti parrà solo un libello cristallino e feroce, quando è l’essenza di un disperato canto da amanti rifiutati. In platea, storie che si narrano con una misura diversa dell’identico dolore. Chi aveva un figlio nella formazione, disarcionato da un posto e dalla vita serena. Chi ha una carrozzina per compagna e si sente abbandonato “perché noi disabili non contiamo niente. Hanno fatto solo un po’ di marketing, altro che assistenza”. Chi ha i figli che studiano e sta sorteggiando la data del biglietto aereo, a malincuore, perché andarsene è l’unica forma di salvezza. Chi è stato in ospedale e giura che non tornerà mai più in un simile lager “neanche in punto di morte”.
Occhi, mani, domande inespresse. Speranze bruciate sul braciere di troppe sconfitte. Cuffariani li chiamano, per dileggiarli. E sono siciliani.