Pietro e la sua generosa lotta | contro il "gran cornuto" - Live Sicilia

Pietro e la sua generosa lotta | contro il “gran cornuto”

Giornalisti, cioè persone che usano le parole per farsene una ragione, per rendere, se non meno aspro, meno solitario il cammino. Il racconto della fine allevia la pena? Non conosciamo la risposta, ma possiamo proporre - come splendido viatico - questo pezzo di Giuseppe Sottile pubblicato sul "Foglio", in ricordo di Pietro Calabrese.
In ricordo di Calabrese
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No, quella parola maledetta nel nostro vocabolario non poteva trovare posto. Noi, palermitani tenaci e irredimibili, non potevamo parlare né di cancro né di tumore, né di metastasi né di chemio, né di Tac né di Pet: queste cose lasciamole alle cartelle cliniche, diceva. Per noi, quel fuoco grande che gli avvampava dentro era semplicemente il “gran cornuto”. Perchè dietro quell’espressione ruvida e ghibellina c’era tutta la forza della teatralità siciliana dove ogni tragedia merita una sfida e ogni “gran cornuto” non può che soccombere e morire.

Purtroppo Pietro Calabrese, 66 anni, giornalista di grande sensibilità e bella carriera, non c’è l’ha fatta. Alla fine, come da copione, il “gran cornuto” ha avuto partita vinta e a noi, che oggi gli daremo l’estremo saluto, non resta che rievocare le gesta ardimentose – si dice così nel gran teatro – di un eroe segnato dal destino; ma che, pur sapendo di perdere, non rinuncia alla nobiltà della battaglia.

Anche se era nato a Roma, Pietro era cresciuto a Palermo e il teatro, per noi siciliani, ha qualcosa di balsamico. Ci regala l’illusione di potere stemperare il dolore nel disincanto e ci consente, soprattutto, di consegnare le nostre sventure al grande, misericordioso palcoscenico dell’umanità: come se il nostro male non ci appartenesse, come se le nostre afflizioni fossero i patimenti di un mondo lontano. Pietro, da siciliano, è riuscito a sdoppiarsi nella tragedia. Ha trasformato se stesso in un personaggio che chiamava Gino e che gli dava la possibilità di raccontare la malattia senza quella mestizia che imbrunisce ogni orizzonte, senza quella malinconia che trasforma la speranza in illusione, e ogni ricordo in un rimpianto. Anzi. Pietro ostentava compostezza e sicumera, a tratti persino allegria. Trattava il tumore con distacco e disprezzo: come un “gran cornuto”, appunto. E, tanto per umiliarlo, non smetteva mai di fare progetti, di cenare in compagnia, di pensare a una casa nuova da comprare, magari in via della Croce, dove invecchiare serenamente con la sua amatissima Barbara e dove coccolare Costanza, sua figlia, e poi i figli di Costanza: “Alla faccia del gran cornuto e di tutti i cornuti messi assieme”, sciabolava. Ed era oltremodo difficile – quando chiacchieravi con lui, o leggevi la sua rubrica sul magazine del Corriere – capire se tanta determinazione gli venisse dalla rabbia o dalla teatralizzazione.

Chi lo ha conosciuto da parecchi anni, chi sapeva guardare oltre i suoi occhi guizzanti e lucenti, chi lo stimava per la sua intelligenza e anche per le sue caparbietà, non ha mai avuto dubbi: Pietro aveva messo in scena la propria esistenza. Lo aveva fatto con un’eleganza tutta sua, ironica e beffarda. Sapeva di dovere morire, ma il teatro delle evanescenze gli consegnava, scena dopo scena, la certezza che la fine non sarebbe mai arrivata.

Forse aveva messo nel conto anche il colpo di scena. Venerdì sera, quando il “gran cornuto” già lo soffocava, un suo vecchio amico lo ha chiamato al telefono, come ogni sera. Per parlare del libro che è pronto, già stampato, e uscirà il 29 settembre. Per parlare, come si usa nel teatro dell’esistenza, di tutto e di niente. Ma Pietro ha preferito scegliere lui il gran finale: “Amico mio, che mi parli a fare? Non vedi che sto morendo?”. E’ morto in pace.


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