CATANIA – “Un funzionario della Prefettura, un funzionario del Banco di Sicilia, figlio di un ex Prefetto, un generale dell’Esercito, un generale dei Carabinieri…vedi che stiamo diventando una loggia di tutto rispetto…”.
Le Cimici della direzione investigativa antimafia sono piazzate nell’autovettura di due importanti colletti bianchi catanesi, è il 1999, in ballo c’è la più grande inchiesta sulla massoneria mai celebrata da un palazzo di giustizia. Inchiesta che non è mai sfociata in un processo, ma che vede importanti collegamenti con l’operazione che ha portato all’arresto del gran maestro Corrado Labisi. Nel ’99 gli inquirenti ipotizzavano che elementi di spicco della massoneria potessero gestire appalti e determinare importanti equilibri nel mondo politico e imprenditoriale.
Scavando nella zona grigia della borghesia catanese, gli uomini della Dia di Renato Panvino, coordinati dal procuratore Capo Carmelo Zuccaro, dall’aggiunto Sebastiano Ardita e dal sostituto Fabio Regolo, hanno rimesso in circolazione nomi e piste importanti già emerse vent’anni fa.
LA LOGGIA – “C’è una loggia in viale Regina Margherita angolo con via Etnea”, il responsabile è Corrado Labisi, alcuni affiliati sono rimasti imbrigliati nell’inchiesta sull’ospedale Garibaldi di Catania dove non si contano i “fratelli”: il vice primario di medicina è “primo sorvegliante di Labisi”, annotano i magistrati. “Il Garibaldi – dicono i massoni intercettati – è pieno di fratelli”, alcuni “spuri”, altri “puri”. Gli inquirenti sottolineano che “l’appartenenza a logge massoniche fosse ritenuta da molti fratelli strumentale più al perseguimento di interessi profani, se non illeciti, che all’arricchimento spirituale da ottenersi mediante l’esercizio delle pratiche esoteriche”.
Per i massoni catanesi, Labisi rappresenta un modello, tanto che i “fratelli” di una loggia che vedeva al suo interno importanti avvocati, pensavano a costruire un tempio “stile, stile…Labisi”.
E tra i fratelli non si contano gli avvocati, alcuni dei quali avevano un ruolo al Comune di Catania e, tra un’iniziazione e l’altra, organizzavano il congresso provinciale di Forza Italia.
IL “FRATELLONE” – Uno dei nomi ricorrenti, nell’inchiesta Belfagor come in quella a carico di Labisi, è quello di Giorgio Cannizzaro, appartenente all’ala borghese del clan Santapaola. Cannizzaro è stato intercettato al telefono con Labisi, che lo chiama “fratellone”. Può contare su personaggi, che lavorano in tribunale, in grado di assicurare la possibilità di “informare gli affiliati alla cosca circa l’esistenza di provvedimenti restrittivi in procinto di essere eseguiti dalle FF.OO.”.
Giorgio Cannizzaro – scrivono i magistrati – è imparentato con la famiglia mafiosa dei Ferrera, i “Cavadduzzu”, e “risulta intrattenere innumerevoli contatti, per affari di varia natura, con malavitosi, con imprenditori e con politici, anche Deputati e Senatori del Parlamento della Repubblica”.
Cannizzaro avrebbe tentato di condizionare anche un importante congresso dei Verdi, quello del 2000. Cannizzaro ha “le sue basi operative principalmente a Catania e Roma, città tra le quali fa continuamente spola in aereo. Lo stesso spesso “interviene” a sanare conflitti, anche tra malavitosi di rango, e la sua “volontà” o il suo “assenso” sono tenuti in grande considerazione, soprattutto nell’ambiente malavitoso”.
Sulla base delle intercettazioni, la Dia ipotizza l’adesione “ufficiale o coperta” di Cannizzaro.