Primarie, viaggio in città - Live Sicilia

Primarie, viaggio in città

Palermo 2012
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Mi rincorrono i sorrisi giù, dietro l’angolo di casa. Assediano la siepe di gelsomino che è la ricchezza più grande della porzioncina di pianeta in cui abito. Sono già qui. Loro. I candidati. Non è il sorriso a disturbare in sé, ma la finzione che lo svilisce nella propaganda del ritocco. Chi ha conosciuto per mestiere o per avventura certi attori, protagonisti o comparse, del consiglio comunale in decomposizione, sa quanto siano differenti dalla decalcomania esibita per pubblicità. Sa quanto sia torvo e poco incline alla letizia il volto che vuole sciorinare un candore insospettabile, come un lenzuolo immacolato da un balcone. Infatti, l’impressione del contatto aveva raccontato altro: non finestre illuminate dal rosso dei gerani, ma sottoscala di catrame. Sono già tutti qui i candidati a Palazzo delle Aquile. Ammazzano l’innocenza del gelsomino. E sorridono.

Non è proprio possibile evitarli, né dribblarli in questo piccolo viaggio intimo attraverso le primarie di Palermo, giusto giusto vicino casa. I cartelloni della pubblicità elettorale volteggiano in via Dell’Olimpo sopra le lapidi improvvisate delle vittime di colpi di sonno, sbadataggini e sciagure stradali assortite. Forse rappresentano un presagio di disgrazia, alla stregua dei voli di certi stormi antichi. Sembrano promettere una diversa leggerezza, da gabbiani. E sono molto avanti sulla rotta dei corvi.

Allo Zen, il gazebo delle primarie è in piazza Gino Zappa. C’è pochissima gente intorno, alle dieci di mattina. Non c’è John l’americano che racconta, instancabile, la sua storia di vittima delle Torri Gemelle prima e di Palermo poi. Non c’è Fortunato che un figlio in un incidente l’ha perso davvero. Si chiamava Salvuccio, tifava Inter, era uno splendido calciatore e un bravo ragazzo. Scendi dalla macchina e ti prende una densa zaffata al gusto di urina. Un paio di donne bivaccano, sedute sulle panchine semi-distrutte e fissano il rito democratico della consultazione.

Lo Zen è perfino monotono nella narrazione di ciò che è, di ciò che peggio non potrebbe essere. Cartacce e munnizza per terra. Gli spazi verdi annegati dal sudiciume. Una identità di caos, di cose, volti, biografie e cassette della frutta accatastati alla rinfusa. E i cittadini di questa luna palermitana, ormai troppo staccata dal resto, ci vivono bene. Sguazzano nell’epicentro di un posto immondo, confessandosi per alibi di non avere altra scelta. Qui, più che altrove, ci dovrebbe essere una coda sterminata di poveri a caccia dei loro diritti. Qui, più che altrove, il voto dovrebbe essere libero per necessità fisica e non obolo di schiavi al padrone di turno. Ma non c’è passione allo Zen, non c’è nulla. L’unico riverbero di emozione umana è dato da un gruppetto messo di fianco. Voci concitate, rabbia, voglia di riscatto. E’ la miccia della rivoluzione? No. Parlano del Palermo. Si dannano per Ibra.

Risalendo verso un’altra terra, verso uno delle tante micro-città di cui si compone una convenzione sociale denominata “Palermo”. Ancora le croci di via Dell’Olimpo. La svolta. Ecco l’angolo di asfalto in cui è morto Salvuccio dello Zen, figlio di Fortunato. Era sul motorino con la sua ragazza. E’ stato falciato da un ragazzo che ha spento la vita di Salvuccio e rovinato la sua. Una signora con la cellulite e il cellulare compie esercizi ginnici proprio lì, con un’occhiata distratta alla lapide costruita dal rimpianto, con i fiori, le foto e la magliettina dell’Inter campione.

Al gazebo di Mondello non c’è quasi anima viva, forse è presto. Un artista da strada inventa i suoi lazzi dopo avere steso un tappetino rosso sul selciato. I palermitani si godono il mare ritrovato. Iniziano quella corrispondenza di amorosi sensi che li condurrà, dritti, tra le braccia dell’estate. E’ un lento spogliarsi, un gioco di seduzione dello specchio azzurro, fino alla totale semi-nudità di agosto.

Forse i palermitani si salverebbero, semplicemente amandosi, come amano il mare. E’ l’idea che viene, tornando verso piazza Europa. Qui la coda si snoda lunghissima. E’ una fila multiforme che pare fatta apposta per una canzone civile di De Gregori. Qui Palermo non è più convenzione, malgrado i corvi. E’ carne, sudore. Qui Palermo è speranza.


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