CATANIA – È sempre stata considerata una delle burocrati più competenti di tutta la Sicilia. Un’esperienza sottolineata dalla diretta interessata: “Ho fatto tre Regioni e qualcosa come 25 Comuni prima di andare in pensione”, ha detto, poco dopo essersi seduta sul banco dei testimoni. Antonella Liotta, ex segretaria generale del Comune di Catania, è stata chiamata a deporre nel corso del processo sul dissesto di Palazzo degli elefanti.
Il processo all’ex sindaco
Tra gli imputati c’è l’ex sindaco del capoluogo etneo Enzo Bianco, oltre che assessori, assessore, dirigenti e componenti del collegio dei revisori dei conti. Tutti accusati di avere avuto responsabilità in un default che, secondo l’accusa, è stato causato da una cattiva gestione della cosa pubblica condensata nel quinquennio 2013-2018. Quello dell’ultima amministrazione Bianco. Dall’1 novembre 2013 al 30 dicembre 2018, Liotta è stata segretaria e direttrice generale del municipio. Uno sguardo al quale, secondo quanto si diceva all’epoca nei corridoi del palazzo, non sfuggiva niente.
Appena seduta sul banco dei testimoni, chiamata dall’avvocato Giovanni Grasso che difende l’ex primo cittadino Bianco, Liotta mette in chiaro un punto fondamentale: ai suoi tempi, a quelli suoi e di Bianco, la distinzione tra attività di gestione amministrativa e attività politica era totale. Per spiegare il punto, fa quello che lei stessa definisce “un esempio, che diventa metafora di un metodo“: “Noi quando andavamo in giunta c’erano gli assessori, il sindaco, il segretario generale che verbalizzava e poi tutta la squadra a supporto: a volte capitava che ci fossero anche i dirigenti, per gli atti più complessi, che accompagnavano gli assessori. Se per caso, dopo la giunta, c’era un momento politico, il sindaco ci ringraziava tutti per la collaborazione e ci faceva uscire dall’aula“.
“I dirigenti lavoravano troppo”
Attorno a cosa fosse gestione e cosa, invece, dovere della politica ruota una delle osservazioni formulate dai consulenti di piazza Verga: “La giunta deve verificare obbligatoriamente la fondatezza dei bilanci“, avevano detto, nell’ambito di una delle udienze fiume nel corso delle quali sono stati sentiti. “Le proposte di entrata e le proposte di spesa – dice Liotta nel corso della sua testimonianza – competono ai dirigenti”. “Le risulta che ci sia stata una qualche intromissione del sindaco?”. “Assolutamente no – replica secca Liotta – Non mi risulta né per il sindaco né per gli assessori. Non mi risulta neanche che un dirigente sia mai venuto da me a segnalarmi qualcosa. I dirigenti, quando venivano da me, era per dirmi che lavoravano troppo. Solo questo”.
Almeno, quelli che c’erano. “Chi ha mai visto 40 dirigenti? Ne avevo dieci, undici. Solo ad agosto 2016 siamo riusciti ad avere dieci, undici dirigenti a tempo determinato. Questa situazione, di per sé drammatica, era allucinante alla Ragioneria”. La descrizione che fa Antonella Liotta è quella di una macchina burocratica con un motore troppo vecchio: per esempio, un software di contabilità non in rete, che rendeva isolata ciascuna direzione. Sul versante dei tributi, per esempio, “a ogni cambio di residenza, i cittadini rischiavano di finire come Asterix nella casa dei matti“.
Le responsabilità del Consiglio comunale
Degno accompagnatore di un motore singhiozzante sarebbe stato un Consiglio comunale pronto spesso ad abdicare alle proprie responsabilità. In particolare sui debiti fuori bilancio della cosiddetta “lettera E”, cioè quelli per beni e servizi per i quali non era stato fatto un preventivo impegno di spesa ma che erano stati ritenuti indispensabili per le attività della pubblica amministrazione.
Nonostante una direttiva che imponeva ai dirigenti di spiegare perché e percome tali debiti fossero maturati, l’aula consiliare spesso disertava il voto. Il metodo descritto da Antonella Liotta è quello di un senato cittadino che non vuole certo semplificare il lavoro all’amministrazione: “Nonostante la presidenza del Consiglio correttamente inserisse questi debiti nel calendario dei lavori – spiega Liotta in tribunale -, i consiglieri spesso non li votavano. O prelevando altri punti dall’ordine del giorno oppure facendo mancare il numero legale. Alla fine della consiliatura ho dovuto amaramente constatare quanto anni di lavoro fossero stati vani: sono tornate sulla mia scrivania tonnellate di delibere pronte ma non esitate“.
Chi ricorda il clima di quei giorni a Palazzo degli elefanti non fa fatica a credere alla ricostruzione: che il senato cittadino non ci vedesse chiaro sui conti pubblici, in un momento delicatissimo, era un fatto noto. Al quale si aggiungeva una maggioranza spesso troppo fragile per rispondere, con la sola forza dei numeri, agli attacchi di un’agguerrita opposizione.
Le competenze del sindaco
Del resto, al Consiglio spettava l’approvazione finale dei documenti contabili. A loro spettava votare previsionali e consuntivi. E sulla base di quanto emendato dall’aula consiliare, eventualmente, si modificavano le certificazioni sul rispetto del Patto di stabilità. I dati, del resto, erano tratti dai rendiconti approvati dall’aula consiliare. Ma poi, racconta Liotta, ci volevano giorni di formazione per gli stessi professionisti della Ragioneria per compilare i certificati richiesti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
“Il sindaco avrebbe potuto modificare queste certificazioni?”, domanda Grasso. Liotta coglie l’assist e replica: “Professore, io non vorrei offendere nessuno… Ma io mi chiedo se il sindaco aveva gli strumenti, non dico di conoscenza, per carità, ma proprio gli strumenti di base informativa per verificare un dato e capire se c’erano errori oppure no. Quando arriva la certificazione del Patto ci sono scritte cose tipo A meno B più C… – afferma l’ex segretaria generale – Queste sono le carte. A meno che, per ogni carta che il sindaco deve firmare, si fa un’organizzazione parallela… Noi tecnici perché le firmiamo le carte, sennò?“.
Il controesame della procura
Tra un sorso d’acqua e l’altro, dopo oltre due ore, il pubblico ministero Fabio Regolo può prendere la parola. “Non è un’accusa”, è costretto a ribadire più volte di fronte all’irrigidirsi di Liotta. Ma poi affonda: “Ad ascoltarla sembra che all’interno del Comune venissero rispettate tutte le procedure – dice Regolo – Se leggo, invece, tutte le ordinanze della Corte dei Conti non è così”.
Nelle parole di Antonella Liotta, tra un Consiglio comunale che rimandava indietro troppi atti, una burocrazia ingolfata di strumenti inadeguati e personale esausto, trasferimenti statali e regionali in estremo ritardo, normative cambiate in corso d’opera e sentenze arrivate a cascata (per lo più dovute ai ridenti anni di Umberto Scapagnini sindaco e dell’ufficio speciale per l’emergenza traffico urbano), tra Palazzo degli elefanti e Palazzo dei Chierici si faceva il pane con la farina che si aveva. Che non era molta né di prima qualità.
Ma se esisteva un debito fuori bilancio, al di là che fosse correttamente riconosciuto o meno, venivano appostate somme sufficienti a coprirlo? È la prima domanda che fa scricchiolare la burocrate di ferro. “Entriamo nel contabile e mi mette in difficoltà… È chiaro che c’erano, io non so dire se fossero sufficienti per l’ammontare dei debiti fuori bilancio”. Del resto, prosegue Antonella Liotta, “non avevo la legalità contabile come competenza”. “Su questo non c’è dubbio – replica Regolo – Infatti non è qui come imputata“.