"Pressioni sui testimoni" | Omicidio al Borgo, processo da rifare - Live Sicilia

“Pressioni sui testimoni” | Omicidio al Borgo, processo da rifare

La Suprema Corte ha stabilito che dovrà essere celebrato un nuovo processo d'appello nei confronti di Gaetano Cinà e dei figli Francesco e Massimiliano. In appello erano stati condannati a 16 anni ciascuno per l'omicidio di Vincenzo Chiovaro e Antonino Lupo, massacrati a coltellate.

PALERMO – Una delle prove principali è stata dichiarata inutilizzabile. Alcuni testimoni fecero i nomi degli imputati nel corso di una conversazione perché avrebbero subito “illecite pressioni”. Ecco perché la Cassazione ha annullato con rinvio la condanna per uno degli omicidi più cruenti della storia di Palermo.

La Suprema Corte nei mesi scorsi ha stabilito che dovrà essere celebrato un nuovo processo d’appello nei confronti di Gaetano Cinà e dei figli Francesco e Massimiliano. In secondo grado erano stati condannati a sedici anni ciascuno con l’accusa di avere massacrato a coltellate Vincenzo Chiovaro e Antonino Lupo nella piazza del Borgo Vecchio. L’omicidio risale al 23 aprile 2002, ma il muro di omertà si ruppe solo sette anni dopo, nel 2009, quando i Cinà finirono in manette.

Nessuno aveva assistito alla ferocia di un delitto commesso in pieno giorno e in una piazza affollata. Alla fine si presentò un testimone, Fabio Nuccio, fratello del collaboratore di giustizia Antonino. Chiovaro e Lupo sarebbero stati uccisi perché avevano rubato lo scooter ad uno dei Cinà e per restituirlo pretendevano un riscatto. Quando i Cinà, manovale il padre e piastrellisti i figli, andarono a chiedere spiegazioni, tornarono gonfi di botte. Chiovaro era esperto di arti marziali. E così sarebbe scattata la vendetta, ricostruita dal giovane Nuccio: “Cinà padre prese un grosso coltello dal pescivendolo Piero, di quelli per il pesce spada. Colpì alla testa Chiovaro. Poi, scesero dalla macchina anche i due figli, il più grande già armato di coltello a serramanico, mentre il secondo figlio, il più piccolo, afferrò un coltello di grosse dimensioni, quello dei meloni, dal fruttivendolo”.

Gli avvocati Toni Palazzotto, Giuseppe Farina, Marco, Giulia e Valentina Clementi hanno fatto ricorso in Cassazione, ottenendo l’annullamento con rinvio. Ora conosciamo le motivazioni. Sono stati accolti alcuni dei motivi difensivi. A cominciare dall’inutilizzabilità di alcune conversazioni intercettate in questura. Siamo nel 2002, tre ambulanti del Borgo – Francesco Balistreri e i figli Davide e Daniele – vengono convocati dalla polizia. Dicono, come tutti gli altri, di non avere visto nulla. Poi, però, dopo otto ore di attesa, pronunciano i nomi di battesimo degli indagati. Sosterranno di averlo fatto soltanto perché indotti dai poliziotti. Gli stessi giudici d’appello parlarono di metodi non ortodossi. Uno dei figli disse addirittura di essere stato picchiato anche se non c’è alcun referto o denuncia a confermarlo. Secondo la Cassazione, in ogni caso, le conversazioni sono inutilizzabili perché “la Corte ha in buona sostanza acclarato che furono indotte o comunque provocate da illecite pressioni ad opera della polizia giudiziaria”.

E così è venuto meno un riscontro alle dichiarazioni di Nuccio. Un riscontro necessario visto che “sotto l’incalzare delle obiezioni difensive in ordine alla attendibilità della fonte e in ordine alla veridicità del racconto, la Corte ha finito col riconoscere che la rappresentazione del fatto di sangue, operata dal testimone, qualificato come oculare, è frutto della elaborazione e della ricomposizione di eventi oggetto della diretta percezione sensoriale, de visu, del dichiarante e di ulteriori fatti, appresi invece de relato da altre fonti, incerte o rimaste sconosciute. Orbene la postulazione dei giudici di merito che, alla stregua di siffatta valutazione della rappresentazione del testimone, debba reputarsi sicura la indicazione della partecipazione di tutti gli imputati alla mortale aggressione, appare gravemente viziata da evidente salto logico”.

In conclusione, i supremi giudici, aggiungono che “il giudice di rinvio dovrà tenere conto, qualora ritenga di dovere affermare la penale responsabilità dei predetti, dell’attenuante della provocazione”. In sostanza, se anche al termine del nuovo processo dovesse arrivare una condanna questa potrebbe essere più mite dei sedici anni inflitti ai Cinà, padre e figli, per uno dei più cruenti omicidi della storia di Palermo.

 


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