Magari Antonio Ingroia avrà pure ragione quando, rispondendo a Calogero Mannino, nega di essere “fuggito”. La storia ci dice, però, che due anni fa, assieme alla toga, il magistrato abbandonò anche e soprattutto il coordinamento delle indagini sulla trattativa Stato-mafia, poco prima che approdassero in aula. Era la “sua” indagine, ma non sarebbe stato il “suo” processo. Si è “risparmiato” l’assoluzione di Calogero Mannino, ma non ha rinunciato al dibattito mediatico.
L’ex procuratore aggiunto non è il solo che ha lasciato ad altri il compito di portare avanti il processo dalla “ridotta” della Procura. La trattativa Stato-mafia, che per anni è stata la roccaforte della magistratura palermitana, è diventata una fortificazione secondaria. Che oggi vacilla sotto il peso dell’assoluzione di Mannino.
D’altra parte negli ultimi due anni è cambiato tutto al Palazzo di giustizia di Palermo. Innanzitutto non c’è più Ingroia, mente dell’indagine che al processo avrebbe voluto ma non ha potuto esserci perché aveva un altro impegno, politico e ben più oneroso: cambiare il paese con la sua Rivoluzione civile.
Prima di lui, in verità, toccò a Paolo Guido fare un passo indietro, ma la sua era stata una scelta senza se e senza ma. Il pubblico ministero partecipò alle indagini con l’accuratezza che tutti gli riconoscono e alla fine scelse di lasciare il pool perché non era per nulla convinto che le prove raccolte potessero essere portate in dibattimento.
Meno netta era stata la posizione dell’allora capo dell’ufficio Francesco Messineo che all’inizio non firmò l’avviso di conclusione delle indagini, ma poi scrisse in calce il suo nome sulla richiesta di rinvio a giudizio. Messineo era diventato procuratore grazie all’accordo fra la sua corrente, Unicost, e Magistratura Democratica, di cui Ingroia era un autorevole esponente. I rapporti scricchiolarono nei giorni in cui di discuteva se mandare a giudizio o meno gli indagati della Trattativa e andò in frantumi quando il capo dei pm prese le distanze dalle parole di Ingroia, il quale definì “politica” la sentenza della Corte costituzionale che diede ragione a Giorgio Napolitano nel conflitto di attribuzione sollevato dal Capo dello Stato sulle telefonate con Nicola Mancino. Era la vigilia dell’addio di Messineo. Il pensionamento lo ha tolto dall’impiccio.
Qualche paletto lo aveva piantato pure Piergiorgio Morosini, il giudice per l’udienza preliminare che mandò a giudizio gli imputati, ma bacchettò i pubblici ministeri parlando di “fonti di prova indicate genericamente nella richiesta di rinvio a giudizio e una memoria che sfiora soltanto le finalità e gli approdi dell’inchiesta”. Calogero Mannino, subito dopo l’assoluzione, non gli ha risparmiato le critiche, certamente meno dure dell’attacco rivolto ai pm. L’ex ministro ha definito “pilatesca” la decisione di Morosini, come se il giudice non si fosse voluto accollare la responsabilità di cassare il processo sul nascere. Morosini, nel frattempo approdato al Csm, avrebbe dovuto giudicare lo stesso Mannino, ma ottenne dal Tribunale di astenersi dall’abbreviato visto che, diceva, si era già espresso nel merito dell’indagine. Il fascicolo è finito a Marina Petruzzella e sappiamo come è andata.
Del pool sulla trattativa faceva parte anche Lia Sava che, però, è andata a fare l’aggiunto a Caltanissetta. A rappresentare l’accusa nel troncone principale che si sta celebrando in Corte d’assise oggi ci sono Vittorio Teresi (l’aggiunto che ha preso il posto di Ingroia), Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. I pm non mollano. Vanno avanti nonostante l’impianto accusatorio sia stato smontato da giuristi, storici e per ultimo dal giudice Petruzzella. “Impugneremo l’assoluzione di Mannino”, ha detto a caldo Di Matteo. Più prudente il nuovo procuratore Francesco Lo Voi che prima vuole leggere le motivazioni della sentenza. Ed è toccato a proprio a Lo Voi, che i rumor prima della sua nomina volevano distante dalle posizioni dei trattativisti, rispondere alle bordate di Mannino contro i pubblici ministeri chiedendo “moderazione” e ricordandogli che l’assoluzione non è né definitiva né con formula piena. Non poteva tacere Lo Voi, la ridotta della Procura rischiava di crollare. Senza contare che potrebbe diventare presto “ridottissima” qualora uno fra Teresi e Di Matteo – entrambi hanno fatto domanda – vincesse il concorso per diventare nuovo procuratore di Caltanissetta. Di Matteo, così come Del Bene, sperano anche in un posto alla Direzione nazionale antimafia. In questo caso, però, potrebbero anche chiedere di essere applicati al processo di Palermo.