C’era una volta la vecchiaia e c’erano una volta i vecchi. Forse ci sono ancora in alcuni centri più piccoli dove i grattacieli e i locali commerciali non hanno ancora sfrattato le seggiole degli anziani dai bordi della strada, ma nelle nostre città rumorose e sviluppate verso l’alto non c’è più posto per le vecchiette che osservano e chiacchierano da dietro le persiane e per gli attempati frequentatori di un circolo quasi intronizzati sui marciapiedi. Se facciamo uno sforzo della memoria li possiamo ancora rivedere: ciascuno con la propria sedia, con la cravatta ben messa e qualcuno con la coppola, affollano l’uscio di un circolo “ex combattenti” o i tavolini di un bar; e stanno seduti lì per ore, a godersi il meritato riposo e ad osservare a volte severi e a volte sornioni i giovani alle prese con la vita, pronti però a soccorrerli con la loro esperienza e la loro pensione. Come erano belli questi vecchi che erano ancora capaci di aggiustarsi gli occhiali per osservare meglio le grazie di qualche donna nel fiore degli anni, quasi che la fiamma di quella gioventù ormai scomparsa per un attimo si fosse ravvivata.
Qualcuno si chiamava anche Calogero, ignaro che quel nome di origine greca celebrasse il “buon vecchio”, e non disprezzava la chiacchiera, la compagnia e un bicchiere di vino; e se all’improvviso arrivava la signora morte non ci si scomponeva più di tanto, si levava una sedia, oppure a qualcuno spuntava un bottoncino nero sul bavero della giacca. Fermarsi ad osservare la canizie di questi nostri anziani era come leggere una delle più belle pagine del “De senectute” di Cicerone. La tarda modernità ci ha portato via le strade, i marciapiedi, le persiane e i circoli, ma ci ha portato via anche i vecchi. I vecchi, quei Vecchi, non ci sono più, ci sono soltanto delle ombre solitarie che riempiono mestamente le chiese e gli uffici postali allo stesso modo e che poi ritornano nei loro sepolcri domestici dove li attende quella terribile badante della tv che li rimbambisce più del dovuto. Non ci sono vecchi perché non c’è più vecchiaia.
Sì, il problema è che oggi non si sa più invecchiare: o ci si butta giù come se si fosse irrimediabilmente soli e decrepiti o ci si comporta come se gli anni non fossero passati, in una sorta di eterna e deleteria giovinezza. Scomparsi i vecchi si fa avanti l’anonima “terza età”, una generazione di uomini e donne che non si arrendono al passare del tempo che combattono a suon di cerone e botulino, che si aggrappano ferocemente ai loro posti di potere e di prestigio quasi a volerseli portare nella tomba come il Mazzarò di verghiana memoria e che una volta soli, abbandonati e depressi volano dalla finestra di un ospedale mentre una certa intelligencija celebra il loro gesto drammatico come un “laico sberleffo” alla vita e alle convenzioni sociali.
Il nostro è il triste tempo dei vecchioni, di quegli anziani cattivi e incattiviti che nel racconto biblico insidiavano la giovane Susanna e che oggi, trascurando facili collegamenti a recenti fatti di cronaca, sono incarnati da una società gerontocratica, bloccata e corporativa che divora i giovani e le loro speranze. Ciò non vuol dire che gli anziani soli e abbandonati e le vecchiette con pensioni da fame non ci sono più, al contrario ci sono e insieme ai loro nipoti che non sapranno mai cos’è una pensione sussistono perché c’è una vetusta cricca che è ancora saldamente al potere, che li ha messi in questo guaio e che non ha intenzione di mollare la poltrona, la cattedra o il proprio posto se non per lasciarlo al figlio, o peggio, al più anziano dei colleghi.
Il rimedio a questa situazione esiste e non è certo un banale giovanilismo rottamatore, ma consiste nel riscoprire le stagioni della vita e dunque i tempi di una società. Si tratta di fare lo sforzo di recuperare il senso profondo della vecchiaia come stagione del tramonto dove i colori si fanno più caldi e c’è tempo per gli affetti, e la quiete subentra perché le occupazioni del giorno sono ormai lontane e ci si prepara alla notte con la serenità di aver fatto il proprio dovere. Non c’è recupero del senso della vecchiaia se però allo stesso tempo non si restituiscono sogni e speranze alla giovinezza, se più in generale tutta la vita non ha un suo equilibrio e una sua dignità. Il pio israelita pregando col salmo 90 chiede a Dio: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”. La sapienza del cuore è proprio questa conoscenza del tempo, che non è solo quantitativa ma principalmente qualitativa, che ci dice che c’è un tempo per ogni cosa: per essere giovani e stupidi ma con tanta voglia di fare e imparare, e poi vecchi, generosi e saggi e con lo sguardo oltre l’orizzonte.