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Quanto vale un simbolo

Perchè ci piace il Presidente siciliano. I simboli politici, amplificati dalla retorica quanto sottovalutati nella pratica, sono le chiavi di accesso a un mondo che non riusciamo pienamente a decifrare.

Lo scorso 4 gennaio la città dello Stretto è stata percorsa da un afflato comune. Al termine della cerimonia dell’Angelus, Papa Francesco ha reso noti i nomi dei nuovi cardinali prescelti, e, fra questi, vi è quello di Monsignor Montenegro, arcivescovo di Agrigento, messinese di nascita. Nella bellissima e agonizzante Messina, segata dai trasporti quanto carente di collegamenti, dove il futuro è dei vecchi, ogni giorno chiudono esercizi commerciali, i servizi pubblici non esistono e il traffico è degno del Cairo, persino i più laici tra i cittadini hanno avuto un moto d’orgoglio, vivendo quale segnale vincente e positivo una nomina che, come valore aggiunto a quello religioso, non è scevra da una connotazione sociale e politica importante. Il prelato, difatti, è stato presidente della Caritas fino al 2008, anno dal quale è metropolita di Agrigento; nel 2013 ha accolto il Pontefice nel suo primo viaggio ufficiale a Lampedusa, della quale è responsabile pastorale; ha promosso iniziative contro la mafia. Nell’Isola, ove abbiamo solo un altro cardinale a Palermo, Monsignor Paolo Romeo, Franco Montenegro, in prima linea nel difficile compito di gestire le emergenze legate agli sbarchi sulle coste siciliane e responsabile pastorale di Lampedusa, è assurto a simbolo dell’accoglienza ai migranti.

I simboli politici, amplificati dalla retorica quanto sottovalutati nella pratica, sono le chiavi di accesso a un mondo che non riusciamo pienamente a decifrare. Il filosofo Michael Walzer (On the role of symbolism in political thought, 1967), osservava che lo Stato è astratto; deve essere immaginato per poter essere concepito, personificato per poter acquisire visibilità, simbolizzato per poter essere amato. Ogni figura fondamentale della vita politica, come, ad esempio, il Sovrano di un regno o il Presidente di uno stato repubblicano, è un “prodotto simbolico”. Come afferma Gustavo Zagrebelski (Simboli al potere, 2012), i simboli, che veicolano contenuti cognitivi e, nello stesso tempo, suscitano risposte emotive, costruiscono la realtà politica, ne definiscono il profilo e condizionano la nostra valutazione degli elementi che la compongono. Creano appartenenza. In poche parole, ne abbiamo bisogno. E i siciliani, la cui identità è spesso svalutata in ambito nazionale, ne sono, talora inconsapevolmente, alla ricerca.

Il coro positivo che ha accolto l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica ha, pertanto, avuto una eco molto vasta nell’Isola. Ci piace, a livello generale, molto del low profile di un uomo di cultura, ma ci piace tanto, proprio tanto, che sia siciliano. Palermo ha immediatamente tributato una doverosa celebrazione allo storico evento. In occasione della cerimonia di insediamento, il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università, ove Mattarella ha insegnato, ha organizzato l’allestimento di un maxischermo affinché il corpo accademico e gli studenti potessero assistere in diretta al primo discorso del Capo dello Stato. L’Università ha voluto sancire una corrispondenza, appunto “simbolica”, tra la capitale e la città che ha visto Sergio Mattarella nel ruolo di docente, proprio per la grande soddisfazione e il legittimo orgoglio con i quali si è accolta l’elezione.

E sono dunque proliferati i commenti sulla “sicilianità” del Presidente. Lucia Borsellino si è detta onorata per il riferimento fatto a suo padre nel discorso inaugurale, e il fratello, Manfredi, ha rilevato come con sobrietà Mattarella abbia citato quali eroi nella lotta alla mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, omettendo il fratello Piersanti, morto per i medesimi ideali; il Presidente Crocetta ha messo in evidenza la netta presa di posizione del nuovo Capo dello Stato contro la mafia; il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, come l’elezione di Mattarella sia la conferma della vittoria di una città intera e di tutti coloro che hanno animato la pacifica rivolta dei palermitani contro il potere mafioso che governava la città, e costituisca “l’orgoglio di coloro che hanno costruito e vissuto una primavera di legalità del diritto e dei diritti”.

Per il deputato di Scelta Civica Andrea Vecchio questa elezione è la conferma del fatto che talvolta lo spirito forte dei siciliani emerge, malgrado la politica isolana sia del tutto degradata: le eccellenze in Sicilia ci sono e Mattarella è una di queste. Il sottosegretario al Ministero dello Sviluppo economico, senatrice Simona Vicari, ha dichiarato che Sergio Mattarella è il paradigma dell’ “altra” Sicilia, di una Sicilia che non si esibisce ma agisce, coerente e fuori dal coro, aliena dalle mode mediatiche ma concreta testimonianza di valori fondanti. Il senatore del Partito democratico Corradino Mineo, infine, nel ricordare che i siciliani hanno la politica nel Dna, e che Palermo, in particolare, è politica, ha affermato che era ora che ci fosse un Presidente della Repubblica siciliano, e che Mattarella rappresenta la “parte buona” della Sicilia.

Ma come ci appare Sergio Mattarella, al di là del collettivo (siculo e non) peana di lodi intonato in suo onore anche da chi fino a ieri ne ignorava ruolo e immagine?

Vagamente distante, circonfuso dall’aura quasi ieratica conferitagli da capelli bianchi e occhi cerulei, sembra aborrire tutto ciò che è gridato; sappiamo che coltiva il culto di legami che nemmeno il fato ha potuto spezzare, e questo in una società dove anche l’amore è effimero; cittadino riservato in un ambiente che adora esternare a proposito e a sproposito, colto tra molti ignoranti, misurato tra tanti eccessi.

Un non-piacione che potrebbe piacerci.

Ed è anche (o soprattutto?), siciliano. Il primo “di noi” al Quirinale, nonostante, guardando alla recente storia repubblicana, qualche altro grande personaggio avrebbe pur meritato di coronare la carriera col raggiungimento della più alta onorificenza dello Stato. Un nome per tutti, Vittorio Emanuele Orlando. E “noi”, come è noto, generosi e permalosi, provinciali e cittadini del mondo, ai primati abbiamo sempre tenuto. Molti ne abbiamo affastellati, spesso in negativo; e per carità di patria, dal momento che le citazioni dal Tomasi sono al momento inflazionate, vi risparmio il memorandum del Gattopardo sul nostro proverbiale cinismo. Forse, infine stanchi di una ridondante identità, istrionicamente in bilico tra letteratura storia e filmografia, non più smaliziati e furbi, ne desideriamo disperatamente una nuova. Pulita.

Nel suo primo discorso da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di priorità assolute, la lotta alla corruzione e a quel cancro pervasivo che è la mafia. Che “distrugge speranze, calpesta diritti”. Chi lo sa meglio dei siciliani? Il messaggio alla nazione, come è giusto, è stato sviscerato nei dettagli da cronisti, costituzionalisti, politologi e financo dai comuni cittadini nei suoi particolari; un po’ meno analizzato, invece, il breve indirizzo di saluto del neo eletto alla cerimonia di insediamento al Palazzo del Quirinale, del quale, seguendo la sobria linea presidenziale, mi limito soltanto a riprendere un elemento che egli ha tenuto a sottolineare: l’esigenza di recuperare il senso dell’unità del nostro Paese che consenta ai cittadini di sentirsi davvero parte di un comunità, mediante un’azione (politica, ovviamente), che riesca a recuperare il senso della convivenza, del vivere insieme. La ragione stessa che origina il consorzio umano. E Mattarella ha richiamato anzitutto gli organi costituzionali, Governo, Parlamento, Alta Corte, e la stessa Presidenza della Repubblica, a concorrere per esplicare tutto l’impegno necessario nel ricollegare pienamente le istituzioni dello Stato a “quei tanti cittadini che non aspettano altro che sentirsi davvero ben accetti dalle loro istituzioni”.

“Noi”, i siciliani, quelli in fondo alla carta geografica dell’Italia, siamo da tempo tra quei tanti. E, per una volta, questa elezione ci ha fatto deporre, fosse solo per un momento, il gravoso fardello dell’atavico disincanto.

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