PALERMO – Dopo l’arresto di Totò Riina, Bernardo Provenzano avrebbe dato il suo benestare alla prosecuzione della strategia stragista avviata da Cosa nostra a partire dalla sentenza della Cassazione del 30 gennaio 1992. Ma le bombe dovevano passare lo Stretto, non si dovevano più fare morti in Sicilia. Il pentito Giovanni Brusca, in uno degli interrogatori resi ai pm di Caltanissetta che indagano sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, racconta che in seguito all’arresto di Riina “una parte di cosa nostra vuole andare avanti nelle stragi, cioè io, Bagarella, Graviano, Matteo Messina Denaro, e anche Biondino e Biondo il corto. Io questa tesi la mantengo fino a quando viene arrestato Gioè. A Bagarella dico sospendiamo questa strategia, Bagarella consulta Provenzano e questi gli dice: ‘Io non voglio andare avanti in Sicilia, mentre fuori dalla Sicilia quello che volete fare fate’. Nella nostra mente c’era sempre la finalità di trattare”.
Così il commando stragista, composto da Bagarella, Brusca, dagli uomini della famiglia mafiosa di Brancaccio e del Trapanese, con in testa Matteo Messina Denaro e i fratelli Graviano, ha spostato l’obiettivo sul continente a cominciare da un vecchio progetto: quello di far fuori il giornalista Maurizio Costanzo. La sua esecuzione sarebbe dovuta avvenire addirittura prima della strage di Capaci quando, invece, gli uomini impegnati nella “missione romana” sarebbero stati richiamati alla base da Riina che si apprestava a organizzare l’eccidio di Capaci. Il 14 maggio 1993 un’autobomba imbottita di esplosivo – composto da tritolo, T4, pentrite e nitroglicerina – deflagra in via Ruggero Fauro, a Roma, al passaggio dell’auto nella quale viaggiava il giornalista che aveva appena finito di registrare al teatro “Parioli” una puntata del “Maurizio Costanzo show”. Il risultato è di 24 persone ferite e undici edifici danneggiati fra cui scuole, uffici e una clinica.
Passano meno di quindici giorni quando una nuova bomba esplode in via dei Georgofili, a Firenze, a due passi dalla galleria degli Uffizi. E’ il 27 maggio 1993, ore 1.40, l’ordigno ha lo stesso composto di quello utilizzato a Roma e sul tappeto restano 5 persone vittime dell’esplosione e 35 feriti. Crolla la Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, e vengono danneggiati: la Galleria degli Uffizi, il Palazzo Vecchio, la Chiesa di Santo Stefano e Cecilia a Ponte Vecchio, il Museo di Storia della Scienza e della Tecnica. Il danno cagionato alle opere d’arte è inquantificabile.
Poi arriva la terribile notte fra il 27 e il 28 luglio 1993. Vengono presi di mira, in contemporanea, il Padiglione d’arte contemporanea di via Palestro, a Milano; le chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma. Nel capoluogo meneghino, alle 23.14, perdono la vita cinque persone, fra cui quattro vigili del fuoco, restano ferite 12 persone e danneggiati 13 edifici. A Roma, dove le autobombe sono esplose quasi in contemporanea dopo la mezzanotte, si contano 22 feriti e 11 edifici danneggiati. Questa volta nel mirino edifici rappresentativi della cristianità e della Chiesa Cattolica nonché alti ed irripetibili simboli del patrimonio artistico mondiale. Qualche mese prima il Papa Giovanni Paolo II si era reso protagonista di un inedito attacco della chiesa contro gli uomini di mafia, col celebre anatema pronunciato alla valle dei Templi di Agrigento.
Ma quella lunga notte ancora non era finita. A Palazzo Chigi, infatti, c’è stato un black-out delle comunicazioni, tanto da far temere all’allora primo ministro, Carlo Azeglio Ciampi, un tentativo di colpo di Stato. Il comitato per l’ordine e la sicurezza, convocato in piena notte, termina solo in mattinata.
Dopo Milano e Roma le bombe, però, smettono di esplodere. Il tentativo di una strage che aveva come obiettivo una camionetta dei carabinieri – da colpire nei pressi dello stadio Olimpico di Roma – nel gennaio 1994, sarebbe fallito per il malfunzionamento del comando di attivazione a distanza della bomba. Anche il tentativo di uccidere il pentito Totuccio Contorno, a Formello, nell’aprile 1994 non va in porto.
Per le stragi sono stati condannati in via definitiva gli esecutori e anche i “mandanti interni”, ovvero la cupola di Cosa nostra con in testa Riina, nonostante allora si trovasse già in carcere. Perché il piano stragista, di fatto, sarebbe stato deliberato ben prima, sul finire del 1991. Ciò che ancora oggi resta da accertare, a quasi vent’anni da quelle bombe sono i cosiddetti mandanti esterni: chi ha armato la mano della mafia?. Il virare della strategia stragista, che passa dalle persone fisiche al patrimonio artistico culturale dello Stato, avrebbe trovato un ispiratore, secondo le dichiarazioni di Giovanni Brusca, in Paolo Bellini, personaggio border-line, legato all’eversione di destra ma in contatto anche con ufficiali dei carabinieri. Il concetto era che uccidendo un giudice, un altro avrebbe preso il suo posto. Ma se si fa esplodere, ad esempio, la Torre di Pisa, nulla potrà più restituirla. Ma lo stesso Bellini, interrogato sulla vicenda, ha detto di non essere il “domatore delle quattro scimmiette: Riina, Bagarella, Brusca e Gioè”. Proprio quest’ultimo, morto suicida in carcere dopo il suo arresto, aveva accusato Bellini nella lettera che ha lasciato ai posteri.
Secondo le sentenze del tribunale di Firenze il fine delle stragi era di “contrastare provvedimenti legislativi ed amministrativi a favore dei collaboratori di Giustizia ed in materia di regime carcerario, e quindi di affermare sul territorio nazionale l’autorità di Cosa nostra in contrapposizione a quella dei poteri dello Stato legittimamente costituiti”. Ma qualcosa in più la dice l’ex capomandamento di Caccamo, Nino Giuffrè, alla corte d’assise d’appello di Catania: “Questa guerra, chiamiamola così, fatta allo Stato mirava semplicemente a un obiettivo ben preciso, cioè cercare che lo Stato o parte, siamo sempre lì, nello Stato, entrasse in contatto con Cosa Nostra. Cioè, che si trovasse un nuovo referente politico perché quelli… quello che c’era in precedenza era ormai inaffidabile”.