"Pentiti usati dallo Stato | Amo mio padre, non lo giudico" - Live Sicilia

“Pentiti usati dallo Stato | Amo mio padre, non lo giudico”

Foto 'Porta a Porta'

Il figlio del boss corleonese: "Non giudico Falcone e Borsellino, sarei strumentalizzato".

Riina jr
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ROMA – “Io non giudico Falcone e Borsellino. Qualsiasi cosa io dico sarebbe strumentalizzata. Se io esterno un parere su queste persone viene strumentalizzato, io ho sempre rispetto per i morti, per tutti”. Lo afferma Salvo Riina nell’intervista a Bruno vespa che andrà in onda stasera su Porta a Porta. Riina jr parla anche del fenomeno del pentitismo: “Solo in Italia succede ciò. In tanti altri Paesi democratici non succede che un pentito che dice di aver commesso centinaia di omicidi non fa neanche un giorno di carcere. Poi accusano le persone, le mandano in carcere poi tornano a fare quello che facevano prima. Si poteva scegliere di fa scontare un minimo delle cose che avevano fatto. I pentiti sono stati sicuramente usati dallo Stato, si poteva fare un’altra scelta con loro. Non si accusano le persone solo per un tornaconto, ci sarà sempre un giorno in cui dovrai pentirti davanti a Dio”.

“Per me lo Stato è l’entità in cui vivo, questo per me è lo Stato. Io rispetto lo Stato, l’ho sempre rispettato, magari non condivido determinate leggi o sentenze. Se condivido l’arresto di mio padre? No, perché è mio padre. A me hanno tolto mio padre”, è la risposta del figlio di Totò Riina a Bruno Vespa che gli chiede cosa sia per lui lo Stato e cosa pensasse rispetto alla condanna del padre.

“Perché io amo lui e la mia famiglia, non tocca a me giudicare le azioni della mia famiglia, io giudico ciò che mi hanno trasmesso, i valori, il rispetto. Se io oggi sono la persona che sono lo devo ai miei genitori”, risponde Riina jr a Vespa che gli chiede perché, nel suo libro, manchi qualsiasi parola di dissenso rispetto al capo dei capi della mafia. “Molti penseranno che è un libro reticente ma io ho voluto scrivere ciò che è stata effettivamente la vita all’interno della mia famiglia. I rimproveri non toccano a me. Non tocca a me giudicare, ci sono stati giudici e sentenze, non li condivido ma mi sta bene”.

Salvo Riina ricorda poi il giorno della strage di Capaci, il 23 maggio del 1992: “Noi solitamente uscivamo con la nostra compagnia e sentimmo un sacco di ambulanze, spesso se ne sentivano, ma questa volta c’era un viavai di ambulanze e auto della polizia che andavano verso Capaci. Ci dissero che avevano ucciso Giovanni Falcone. Restammo tutti ammutoliti, poi tornammo a casa e c’era mio padre che guardava il tg. Non mi venne mai il sospetto che mio padre era dietro gli attentati. La mafia cos’è? Non me lo sono mai chiesto, non so cosa sia. Oggi la mafia può essere tutto e nulla. Omicidi e traffico di droga non sono soltanto della mafia”. Raccontando della sua vita, parla di “un’infanzia molto serena, perché a casa nostra non ci hanno mai trasmesso determinate problematiche che potevano vivere i miei genitori”.

E a Vespa che gli chiede se si è mai chiesto perché non andasse a scuola, Salvo Riina replica: “Per noi non era normale ma non ci siamo mai chiesti perché non ce le facevano queste domande, eravamo una sorta di famiglia diversa, abbiamo sempre vissuto un po’ questa vita diversa dagli altri. L’arresto di mio padre è stato uno spartito”. “C’era – prosegue – una sorta di tacito accordo familiare, noi eravamo bambini particolari, il nostro contesto era diverso, abbiamo vissuto anche in maniera piacevole, nella sua complessità è stato come dire un gioco”.

“Ho cominciato a capire intorno ai 4-5  anni”, racconta Riina che, parlando della madre sottolinea: “per mia mamma erano giusti i valori che aveva mio padre, quando lo ha conosciuto era un uomo tutto di un pezzo, con rispetto della famiglia, delle tradizioni. Quando mio padre uscì dal primo arresto aveva 27 anni, mia madre si innamorò sin da bambina. Allora mio padre aveva commesso un omicidio per una lite banale tra ragazzi”. Riina continua a illustrare gli anni della sua giovinezza e spiega: “Non abbiamo vissuto nel lusso, siamo sempre stati una famiglia molto modesta. Siamo nati tutti registrati con il nostro cognome originale” benché poi i membri della famiglia si chiamassero Bellomo. “Mio padre diceva che andava a lavorare la mattina e tornava la sera a casa, per noi era un lavoro normale, poi con gli anni abbiamo cominciato a capire che c’era qualcosa di diverso, sapevamo da bambini quale era il nostro vero cognome”, conclude

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