PALERMO – Un giorno Totò Riina lo convocò e mise le cose in chiaro: “Per Cosa nostra deve trattare come me”. Era la fine degli anni Settanta e Vito Roberto Palazzolo diventava il grande riciclatore dei soldi di Cosa nostra. Guai a definirlo un mafioso pentito, però. È un’etichetta che Palazzolo non vuole cucita addosso. Non si sente né l’uno né l’altro. Ammette, questo sì, di avere ripulito, investendolo, montagne di denaro sporco.
Il manager partito negli anni Settanta da Terrasini, un piccolo paese sul mare della provincia palermitana, ha deciso di collaborare con la magistratura. Vuota il sacco, perché – ha detto ai pubblici ministeri di Palermo – “voglio pagare il mio conto”. Da dichiarante – non è stato, infatti, inserito in alcun programma di protezione, ma gli è stato revocato il 41 bis – negli ultimi sei mesi ha riempito diciotto verbali in cui ricostruisce gli affari non solo con Riina, ma con altri pezzi da novanta di Cosa nostra. Eppure sostiene di essere stato “usato” dalla mafia che ha “abusato” delle sue capacità.
I resoconti del finanziere della Pizza Connection sono un salto indietro nel tempo. Bisogna capire se e come sarà possibile scovare le tracce attuali degli investimenti. Il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e i sostituti Francesco Del Bene e Dario Scaletta hanno già firmato una sfilza di deleghe ai finanzieri per riscontrare le sue dichiarazioni e rintracciare il filo del riciclaggio – mai interrotto – scoperto trent’anni fa da Giovanni Falcone. Tra le prime cose di cui Palazzolo ha riferito ci sono gli “80 milioni di dollari trasferiti in pochi anni dall’America in Svizzera. Li nascondevamo dentro le valigie”. I corrieri dei soldi sporchi non passavano i controlli, ma “accedevano alle aree riservate” di importanti compagnie aeree dove “i bagagli non venivano controllati”.
Siamo alla fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta – gli anni della Pizza Connection – quando la mafia siciliana acquistava tonnellate di morfina in Turchia, la raffinava in Sicilia e poi riempiva il mercato americano di eroina, spacciata attraverso una fitta rete di pizzerie e ristoranti gestiti da siciliani espatriati. Gli incassi, milioni e milioni di bigliettoni verdi, grazie alla preziosa collaborazione di Palazzolo, finivano nel circuito bancario elvetico tramite alcune società finanziarie. E da qui investiti altrove. Per capire, alla luce delle dichiarazioni di Palazzolo, quanto difficile sarà il lavoro degli inquirenti basta sapere che tracce del denaro sporco sono state trovate persino in Cina e Birmania, dove operavano e forse operano importanti società di import-export di materie prime. Era ed è la mafia imprenditrice di cui parlava Falcone e di cui pochissimo si è scoperto in questi anni.
L’inizio di tutto, racconta Palazzolo, fu l’incontro con Oliviero Tognoli che ufficialmente faceva l’industriale a Brescia – “me lo presentarono come un imprenditore del ferro” – ma che in realtà “riciclava i soldi della mafia”. Il nome di Tognoli, Palazzolo lo aveva già fatto mentre si godeva la latitanza dorata in Sudafrica, quando dichiarò di non conoscere né Totò Riina né Provenzano. Allora riteneva “una vergogna essere considerato il tesoriere dei due più grandi criminali d’Italia. Il vero cassiere della mafia era l’industriale Oliviero Tognoli”. Ora Palazzolo aggiusta il tiro, conferma il ruolo di Tognoli e ammette di essere stato il tesoriere dei corleonesi, storicamente in ottimi rapporti con la cosca di Partinico a cui Palazzolo era affiliato.
Furono proprio i boss di Partinico, racconta il neo dichiarante, a proteggere Riina quando si rese irreperibile dopo l’omicidio di Michele Navarra, il medico e capomafia di Corleone assassinato alla fine degli anni Cinquanta su mandato di Luciano Liggio. Poi, Palazzolo mostrò le sue abilità finanziarie – “i miei contatti arrivavano in Indocina” – e venne il giorno della convocazione da parte di Riina. I due si incontrarono in Sicilia, d’estate, dove ogni anno Palazzolo tornava in vacanza. Anni dopo si sarebbero rivisti in Svizzera per un appuntamento ancora misterioso: “Siamo stati due giorni assieme. Abbiamo parlato di tante cose”. Il boss corleonese in Svizzera di certo non c’era andato in vacanza.
Oggi Palazzolo si compiace quando ricorda la faccia dei compaesani con gli occhi sgranati per ammirare la sua “Mercedese Pagoda”, una fuoriserie di cui a Terrasini e dintorni ignoravano l’esistenza. Tornava in Sicilia e programmava gli affari: trascorreva le calde giornate “in una villetta alla Ciammarita”, dove incontrava i boss. Palazzolo divenne il collettore del riciclaggio dei più potenti mafiosi di Palermo e provincia. Non ci sono, infatti, solo i nomi dei padrini corleonesi nei suoi verbali, ma anche quelli del ”capomafia di Bagheria, Leonardo Greco, del boss di Pagliarelli, Nino Rotolo, di Nino Madonia, signore di Resuttana, di Rosario Naimo che partì da San Lorenzo per fare carriera criminale negli States ed oggi è un collaboratore di giustizia. “Ero l’interfaccia di Naimo, poi ci furono degli screzi”, racconta Palazzolo dimostrando di conoscere bene il ruolo di Naimo – condannato a 19 anni di reclusione per mafia e traffico internazionale di stupefacenti -, l’uomo che gestiva i rapporti fra i mafiosi siciliani e quelli americani. Quando nel 1981 Totò Riina prese il potere con un colpo di stato interno a Cosa nostra, Naimo fu scelto come garante dell’esilio degli “scappati”, i boss perdenti nella guerra di mafia e obbligati a trasferirsi in America.
E poi, nei verbali di Palazzolo, compare il nome del patriarca di Partinico “Nenè Geraci”. Come di Partinico sono i Nania considerati la mente degli affari internazionali dei Vitale. Nei confronti del clan Nania è in corso un processo davanti alle Misure di prevenzione. Perché, secondo l’accusa, la villa alla Ciammarita, località balneare nel piccolo comune di Trappeto, sarebbe riconducibile a loro. Una villa diventata la base operativa degli affari dei boss, molti dei quali portavano “in contanti, dentro i sacchi della spazzatura” i soldi da investire all’estero.
Quando i boss capirono che, nonostante le connivenze e l’assenza di controlli, fosse troppo rischioso fare viaggiare i soldi nei doppifondi delle valigie, “mi sono inventato – mette a verbale Palazzolo – le compensazioni finanziarie tra istituti bancari e società con sedi a New York e in Svizzera”. All’epoca era titolare dellaPa.Ge.Ko., ufficialmente operante nel settore della progettazione, della locazione e della vendita di complessi immobiliari e industriali. Un colosso con sedi in Svizzera e Germania, e filiali a Montecarlo, Honk Kong e Singapore. La Pa.Ge.Ko è stata consociata con la Cristel Biersak import Export Gmb con sede a Costanza, il cui amministratore era Nino Madonia di Resuttana.
Gli ultimi interessi economici Palazzolo li stava coltivando a Bangkok. È in Thalainadia, nell’aprile 2012, che il latitante fu scovato in aeroporto. Sul suo capo pendeva una condanna definitiva a nove anni per associazione mafiosa. In carcere Palazzolo c’era già finito in Svizzera, il 20 aprile 1984. Approfittando di un permesso natalizio di trentasei ore, il 24 dicembre 1986, salì su volo per il Sudafrica, esibendo alla frontiera un passaporto svizzero intestato a Stelio Domenico Frappoli, suo compagno di cella. Per due mesi se ne andò in giro con un permesso turistico. Poi, decise di farsi una nuova identità. Gli bastò trasferirsi nella Repubblica indipendente del Ciskei (una piccola enclave riconosciuta solo dal Sudafrica e oggi riassorbita nel territorio di quest’ultimo stato) e pagare 20.000 rand – circa duemila euro – per diventare il rispettabile Robert Von Palace Kolbatschenko. Da qui in Namibia dove sposò Tsirtsa Grunfeldt, una donna di origine israeliana, e di nuovo in Sudafrica dove non era più un ospite indesiderato. Anzi, divenne un potentissimo uomo d’affari. Gestiva le sorgenti di Franschhoek, a Città del Capo, la cui acqua riempiva le bottiglie “La Vie” servite a bordo degli aerei della “South African Airways”. Era titolare di due società di vigilanza privati, Ops e Pro-Security, composti da cittadini russi e marocchini che imponevano il pizzo ai commercianti italiani di Città del Capo. Ed ancora, ristoranti e night club di lusso, allevamenti di struzzi e diamanti. In Angola l’ex latitante era socio della “Rcb Corporation L.d.a.”, che si occupava dell’estrazione di pietre preziose, soprattutto diamanti, mentre Pietro Efiso Palazzolo a Città del Capo era proprietario della compagnia Von Palace Diamond Cutter.