PALERMO – Dell’antimafia di mestiere, tutta chiacchiere e distintivo, restano le macerie. Persino la magistratura siciliana ammette i propri errori. E lo fa scegliendo il giorno della parata delle toghe. Per una volta non c’è solo retorica nei discorsi dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. È il caso Saguto ad imporlo, senza se e senza ma, sia a Palermo, la città dello scandalo che ha travolto la sezione Misure di prevenzione del Tribunale, che a Caltanissetta, dove lavorano i pm che lo scandalo hanno fatto esplodere con le indagini.
Sarà l’inchiesta e l’eventuale processo a stabilire se l’ex presidente Silvana Saguto e gli altri componenti del vecchio collegio che sequestrava i beni ai mafiosi e li assegnava agli amministratori giudiziari abbiano davvero commesso i reati che i finanzieri ipotizzano. Reati pesanti che includono la concussioni, la corruzione e il riciclaggio. Dalle indagini è, però, già emerso uno spaccato di favori e clientele che fa a pugni con l’imparzialità che ci si attende da chi indossa una toga. È Giovanni Legnini, vice presidente del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura, oggi a Caltanissetta, a parlare di “fatti di inaudita gravità”.
La magistratura ammette gli errori. È lecito chiedersi, però, cosa abbia fatto per evitarli. A Palermo il presidente della corte d’appello Gioacchino Natoli ha spiegato“che se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all’inchiesta sulla sezione misure di prevenzione di Palermo dovessero essere confermate, occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario”. Insomma, secondo Natoli, chi doveva controllare non lo avrebbe fatto.
A livello locale, così come anche nei palazzi romani. Sempre Legnini si è complimentato con “i magistrati della Procura di Caltanissetta” che grazie alla loro indagine “coraggiosa e difficile hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che il Csm potesse sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell’autorevolezza di quell’ufficio”. Ripristinare, appunto, qualcosa che è venuta meno e non prevenire che ciò accadesse.
E la politica? Anch’essa ammette, per bocca del ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi a Palermo, “la timidezza della politica negli anni passati sulla magistratura. Avere lasciato spazi di discrezionalità ampia, per esempio, non regolando attraverso norme i compensi e le modalità di affidamento degli incarichi agli amministratori giudiziari o in altre procedure che prevedano incarichi con ampio margine di discrezionalità, ha consentito che si creassero zone d’ombra. La stagione nuova che si è aperta – conclude il ministro – ci consente di ragionare, grazie anche al rinnovato dialogo con la magistratura, su questi temi allo scopo di tutelare il prestigio della giurisdizione”.
E così la politica e la magistratura, per bocca dei suoi stessi autorevoli rappresentanti, hanno finito per contribuire a rendere vuota di significato la parola antimafia. L’intervento più duro dello giornata è arrivato dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che fotografia le macerie dell’antimafia: “C’è stata forse una certa rincorsa all’attribuzione del carattere di antimafia, all’autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l’antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. Rincorsa che è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità o magari a riscuotere consensi. spiace registrarlo a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato”.