PALERMO – Sembrava una roccaforte inviolabile. Non lo è più. I finanzieri hanno rastrellato vicolo Pipitone a Palermo, nella zona dell’Acquasanta, feudo dei Galatolo.
È uno dei luoghi simboli della mafia palermitana. Vecchia e nuova. Da lì negli anni Ottanta partivano gli squadroni della morte per compiere gli omicidi eccellenti. Ed è lì che c’era lo “scannatoio” di Cosa nostra. Luogo di tortura e morte per i nemici e per chi disobbediva alle regole d’onore.
All’alba di stamani, oltre 120 finanzieri, in tenuta antisommossa, hanno fatto irruzione nel budello a pochi passi dai Cantieri navali di Palermo. I finanzieri hanno cercato, senza successo, con apparecchiature sofisticate tracce del tritolo per uccidere il pm Antonino Di Matteo e che potrebbe essere stato nascosto in uno dei tanti magazzini maleodoranti del vicolo.
“È un fondo che era inaccessibile – come ha spiegato il procuratore aggiunto Vittorio Teresi -, teatro della storia più violenta di Cosa nostra. Lì si organizzavano i summit di Cosa nostra, venivano strangolate le persone attirate nei tranelli nel corso della guerra di mafia alla fine degli anni ’80”.
I Galatolo hanno saputo aspettare il loro momento. Quando ammazzarono il capostipite, don Gaetano – era la fine degli anni Cinquanta – la loro strada sembrava segnata in negativo nello scacchiere di Cosa nostra. Ed invece il patto di ferro con i corleonesi di Totò Riina avrebbe cambiato il corso delle cose. Da fondo Pipitone, fra i Cantieri navali e il mercato ortofrutticolo, negli Ottanta si muoveva il gruppo di fuoco del capo dei capi. Da fondo Pipitone partirono i killer del giudice istruttore Rocco Chinnici, del segretario del Pci Pio La Torre, del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, del commissario Ninni Cassarà.
I killer tornavano con gli abiti sporchi di sangue e Giovanna Galatolo, così ha raccontato la sorella di Vito, aveva il compito di lavarli. Senza fare troppe domande. Ottenuta la massima credibilità tra le file di Cosa nostra i Galatolo hanno iniziato a pensare agli affari. Il padre di Giovanna e Vito, Vincenzo, con gli zii Raffaele e Giuseppe misero le mani innanzitutto sui Cantieri navali. Una mareggiata nel lontano 1973 portò a Palermo miliardi di lire per riparare la diga foranea e nacquero una sfilza di società, tutte o quasi riconducibili ai Galatolo. Le cronache recenti ci dicono che gli interessi del clan sarebbero proseguiti nel settore della cantieristica navale.
Fa impressione vedere oggi nello “scannatoio” un tavolo e delle sedie. Laddove si uccidevano le persone oggi c’è una cucina.