PALERMO – Le cifre sono da capogiro, pur sapendo che spesso le stime sono fatte al rialzo. L’elenco dei beni sequestrati e confiscati alla mafia è sterminato. Al netto di ciò che, concluso il processo davanti alle Misure di misure di prevenzione dei Tribunali, alla fine sarà restituito ai proprietari, ci si rende conto di quanto ammorbata da Cosa nostra sia l’economia siciliana. Quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende che valgono 30 miliardi di euro e che generano incarichi, polemiche e, da qualche tempo, anche inchieste giudiziarie. Lo scandalo che ha travolto l’ex presidente della sezione di Palermo, Silvana Saguto, non può fare dimenticare, come ha ricordato il procuratore Francesco Lo Voi durante l’anno giudiziario, il lavoro svolto negli anni per estirpare la mafia dall’economia.
Cominciamo dai sequestri. In cima alla “classifica” dei provvedimenti più grossi di sempre c’è quello che ha colpito Gaetano Virga. I suoi beni, secondo la Dia, valgono un miliardo e seicento milioni di euro. E dire che la sua attività era partita da un piccolo impianto di Calcestruzzo nella zona di Marineo, paesino d’origine dell’imprenditore. Si contende il primato con la galassia di imprese e impianti di energia alternative sequestrati a Vito Nicastri, il “re del vento” di Mazara del Vallo (il suo patrimonio vale un miliardo e 300 mila euro). Segue quello degli imprenditori palermitani Rappa – 800 milioni – da inserire nell’elenco di quelli che potrebbero essere dissequestrati. È di poco tempo fa, infatti, la notizia dell’annullamento in Cassazione.
Ci sono poi i 780 milioni tolti al ragioniere di Villabate Giuseppe Acanto. Storia singolare, secondo la Dia, quella di Acanto, alla testa di un reticolo di cooperative: prima braccato da Cosa nostra, poi in affari con Cosa nostra. La mafia avrebbe capito che le sue capacità andavano sfruttate anche a costo di perdonargli la grave colpa di avere raggirato alcuni uomini d’onore. Perché il ragioniere Acanto era socio di Giovanni Sucato. Quel Sucato che negli anni Novanta si guadagnò l’appellativo di “mago dei soldi”, promettendo di raddoppiare in breve tempo i capitali che gli venivano consegnati. All’iniziò fu davvero così, dalle sue mani transitarono 10 miliardi di lire, poi la truffa venne a galla. E c’erano cascati anche personaggi che contavano.
Mezzo miliardo di euro varrebbe il patrimonio di Calcedonio Di Giovanni, monrealese di origine ma considerato in affari con i mafiosi di Mazara del Vallo. Tra i beni sequestrati ci sono anche un centinaio di case nel villaggio vacanze Kartibubbo a Campobello di Mazara. Altro sequestro record è quello che ha colpito il marsalese Michele Angelo Licata, 52 anni, imprenditore del settore ristorazione-alberghiero. Seguono i 50 milioni del patrimonio degli imprenditori palermitani dell’abbigliamento Niceta, i 27 milioni ciascuno del catanese Francesco Ivano Cerbo (imprese che spaziano dall’editoria all’intrattenimento, dall’edilizia al comparto alimentare), considerato il braccio economico del clan Mazzei, e di Salvatore Santalucia, pure lui catanese, imprenditore del calcestruzzo, ritenuto la cerniera tra le organizzazioni criminali mafiose a cavallo tra le province di Messina e Catania per il controllo delle attività imprenditoriali. In coda alla classifica c’è patrimonio da 26 milioni di euro di un altro catanese, Santo Massimino, che avrebbe fatto affari nel settore del’edilizia e delle energie alternative all’ombra del clan Santapaola.
Fin qui i sequestri che, una volta passati, al primo vaglio dei Tribunali siciliani diventano confische. Tra i provvedimenti più recenti spicca quello che ha colpito il costruttore palermitano Francesco Pecora (100 milioni) che edificato mezza città in combutta con padrini come Nino Rotolo, Diego e Ignazio Agrò di Racalmuto (settore olivicolo, 54 milioni), l’imprenditore edile trapanese Vito Tarantolo (20 milioni), Michele Mazzara di Paceco (settore agricolo, edile e alberghiero: 26 milioni), il catanese Giuseppe Sandro Maria Monaco (22 milioni).