Serve ancora il giornalista? - Live Sicilia

Serve ancora il giornalista?

Domandone esistenziale al centro di un dibattito nella sede dell'Ordine. La risposta è no. O forse. O chissà. Dipende dal giornalista.

Serve ancora il giornalista? La mia risposta: non è detto. Non serve comunque e per forza. Non servono i cattivi giornalisti, né i pessimi cuochi, né gli idraulici che non sappiano fare il loro mestiere. E’ un’epoca dura, ci vuole gente ferrata. Di chiacchiere, tesserini e distintivi ne abbiamo abbastanza.

Andiamo con pazienza. L’Ordine dei giornalisti ha organizzato una bella discussione sul tema “Dal dimafonista a twitter, serve ancora il giornalista?”. Il domandone esistenziale, appunto. C’erano: Piero Cascio del Gds, Enrico Del Mercato di Repubblica, Giorgio Petta de La Sicilia, Lidia Tilotta della Rai, Giovanni Villino di Tgs e il sottoscritto, sotto gli auspici del segretario dell’Ordine, Concetto Mannisi e di Giancarlo Ghira, segretario del Consiglio nazionale. Sede della discussione la villa confiscata a Totò Riina in via Bernini. Un luogo che ha perso molto del suo mistero e oggi appare felicemente normale. Tuttavia, a scendere certe scale e a guardare certe finestre, ti sorprendi a chiederti come guardasse e come camminasse la belva che laggiù regnava, in un microcosmo di falsa normalità.

Vivace dibattito sui temi consueti. L’avvento dei tempi nuovi, della mediaticità contemporanea. Qualche lacrimuccia sul vecchio giornalismo che non esisterebbe più e le rassicurazioni di circostanza ai giovani colleghi che non hanno futuro, né speranze di assunzione. Si consolino con l’etica e con la passione. E stiano sereni, per quanto possono, nel mestiere che consuma scarpe, stomaco e speranze.

Discussione frizzante e profonda che denota un limite originario: l’attenzione al mezzo e non al contenuto. La conseguente demonizzazione del web, sotto traccia o esplicita. Come se ci trovassimo a maledire la stampa di Gutenberg e la televisione e il cibo per cani. L’allergia consacrata degli uomini di un’era che sta trascorrendo agli argomenti di ciò che verrà. Che esistono e vanno pensati con spirito positivo. Che splendida occasione che si presenta per la parola. Nei tempi dell’economia, nel mondo della tenerezza assassinata in culla – e la chiamano eutanasia – nella linea retta dell’aridità espressiva, il linguaggio ha la possibilità di scavare, di emozionare, di raccontare, di salvaguardare, preservare e portare a rinascita l’identità umana.

Che magnifica mattina è questa rinascenza della parola capace di edificare comunicazione e quindi relazione. Purché sia usata bene. Le consonanti e le vocali che si perdono nel ventre di Matrix sono tecnica superficiale. Ma noi abbiamo frecce per dire cose che restino. I giornalisti, come tutti coloro che hanno l’alfabeto tra i ferri del mestiere, sono chiamati alla sfida. Non si tratta di garantire l’esattezza di una notizia, nel flusso delle informazioni. E’ necessario farla cantare. Narrarla. Fare in modo che sia comprensibile. E, se dietro c’è una storia, riuscire a rintracciare la bellezza che esiste pure nel dolore. Perché raccattando armonia qua e là, si produce consolazione. La lettera del papà di un bimbo down che abbiamo pubblicato va nella direzione giusta, per esempio.

E allora, cari colleghi e carissimi lettori, non stiamo a fasciarci la testa, non verghiamo preventivi certificarti di morte. Finché la parola vivrà, ci sarà il giornalismo con qualunque mezzo. E resterà con noi, se ricorderemo l’attacco di un articolo che ci ha emozionato. Se, uscendo da casa, mentre infiliamo le chiavi nel cruscotto, lo canteremo come una canzone.


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