La Sicilia del ciclone dove la catastrofe è normalità

La Sicilia del ciclone dove la catastrofe è normalità

Una tragedia che è stata già dimenticata.

La Sicilia del ciclone è stata sulla prima pagina dei giornali nazionali soltanto il tempo di contare i morti. Soltanto il tempo di assistere all’arrivo del capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, a Catania, come Cristoforo Colombo in una terra primitiva. Soltanto il tempo di una fugace conta dei danni. E tutto sarà cancellato prestissimo. Scoloriranno, nelle pagine interne dei giornali, i nomi di Angela, Sebastiano e Paolo, travolti dalla piena. Verranno dimenticati i lunghi attimi di terrore, il mare tempestoso in via Etnea, le facce sconvolte di chi ha avuto paura, di chi ha perso la vita e la roba. La linea va alla partita. Domenica sera c’è già Milan-Roma e sotto la punta dello Stivale non esiste nulla che abbia dignità di un perenne racconto di cronaca, secondo gli algoritmi e i pensieri che regnano nelle stanze della comunicazione importante.

Perché ‘Sicilia’ è sinonimo di catastrofe e sofferenza. Nella normalità. Una routine che non stupisce più. Un dramma che svirgola in tragedia, ma di cui tutti sanno tutto. Per cui, quando succede il peggio, ogni particolare viene inserito in quella zona oscura che sta fra l’incuria e la fatalità, assumendo, via via che passa il tempo, una trasparenza che declina in invisibilità. Arrivederci, carusi, ci risentiamo al prossimo flagello e possiamo soltanto sperare che Sant’Agata vegli sui vostri sonni inquieti.

E possiamo sperare che Santa Rosalia vegli sui sonni dei palermitani. Visto e considerato che, per esempio, i detriti di via Grotte, sopra via Tolomea, a Mondello, non sono stati rimossi, non completamente almeno. E campeggiano lì per significare il trionfo della non amministrazione. Sono i resti dell’ultimo temporale cittadino. Forse la Santuzza ha potuto stendere il suo manto pietoso, forse è fortuna. In ogni caso, il tempo fin qui è stato clemente. Per un Apollo catanese non c’è stato un Marte panormitano. Altrimenti sai che spettacolo, la nuova devastazione che si aggiunge alla vecchia.

No, certo, non si possono dare tutte le colpe e tutti i chiodi a chi ha governato negli ultimi mesi ed è sempre labile il confine tra furia e immobilità. Scontiamo stratificazioni di malgoverno. Qualunque sindaco, con la faccia contrita, potrebbe sciorinare progetti che i predecessori non hanno coltivato, opere che non vennero completate o iniziate. Esiste una genealogia dell’oscenità in politica che rende ogni responsabilità non rintracciabile.

Così, la Sicilia alluvionata, percossa e ferita, si appresta a rientrare nel cono d’ombra delle sue disgrazie abitudinarie, sperando sempre di scansare la Disgraziatissima Disgrazia Maiuscola. Ritorna impalpabile questa terra incarcerata alle sue oleografie, ai suoi miti pessimi o salvifici: la lupara, la pala di ficodindia, la mafia, l’antimafia, il cannolo, i terremoti, le tempeste e i morti. Morti che erano vivi e che aspettano, pazienti, di dissolversi nella memoria. Verranno ricordati dagli intimi come vittime di un accidente che riguarda un intero popolo. L’impresa impossibile di essere siciliani.


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