PALERMO – Una “partita a scacchi”, giocata a colpi di tangenti e favori. E persino le nomine nella sanità, decise dalla politica, sarebbero diventate merce di scambio, “utilità” del patto corruttivo.
Sono durissime le parole della motivazione della sentenza con cui lo scorso agosto, in primo grado, il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo, Clelia Maltese, ha condannato gli imputati al processo che muoveva dall’inchiesta dei finanzieri denominata “Sorella sanità”.
Così veniva chiamato Fabio Damiani, ex manager dell’Asp di Trapani e presidente della Centrale unica di committenza che gestiva gli appalti della sanità siciliana.
“Utilizzava il suo ruolo, la sua funzione di presidente della commissione di gara per ottenere in cambio utilità economiche e favori politici”, scrive il giudice che ha accolto la ricostruzione del procuratore aggiunto Sergio Demontis e dei sostituti Giovanni Antoci e Giacomo Brandini.
Al suo fianco c’era l’imprenditore agrigentino Salvatore Manganaro: “Damiani si destreggiava durante il lungo tempo in cui si sono svolti i lavori della commissione, guidato sapientemente da Manganaro che curava e manteneva contemporaneamente rapporti con soggetti rappresentanti di distinte aziende partecipanti”.
E lo guidava affinché vincesse un’impresa piuttosto che un’altra. Ma il gioco sporco, la “partita a scacchi” appunto, si disputava facendo credere a tutti che era pronto l’aiutino per vincere la gara. D’altra parte, aggiunge il giudice, Damiani forniva a Manganaro “la documentazione della gara affinché lo guidasse scientemente in spregio a qualunque principio e regola di buona amministrazione”. Anche questo hanno ricostruito i finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo.
La nomina a Trapani
Nelle motivazioni viene ricostruita la vicenda della nomina di Damiani a manager dell’Azienda sanitaria provinciale di Trapani. Ivan Turola, rappresentante della società Ferco, che ha in precedenza patteggiato, sarebbe voluto arrivare a Gianfranco Miccichè, tramite il fratello di quest’ultimo, Guglielmo. Il presidente dell’Ars, quando vennero fuori le conversazioni fra Damiani e Manganaro, smentì con forza di essersi mosso in favore del manager.
Damiani, Turola e Guglielmo Miccicichè si videro al bar Spinnato di via Principe di Belmonte a Palermo e qui, raccontò Turola, il fratello del presidente dell’Ars “nemmeno aveva capito il nominativo e l’aveva confuso con il mio”. Insomma nessuna pressione, smentita anche nelle dichiarazioni dello stesso Damiani: non avrebbe avuto bisogno di sponsor perché la sua nomina era certa.
L’incontro al bar
Eppure il giudice scrive che l’episodio faceva parte del piano. Turola sarebbe stato favorito in una gara “in cambio dell’interessamento di Turola per la nomina di Damiani a manager della sanità siciliana, è avvenuto un incontro con Guglielmo Miccichè, fratello di Gianfranco, che secondo le stesse parole Damiani era il vero artefice della sua nomina a dirigente generale dell’Asp di Trapani”.
“Utilità non economica”
Anche questa viene considerata un’utilità del patto corruttivo, “in questo caso non era una utilità economica, forse comunque garantita a Manganaro nella misura di 250.000 euro, ma l’opera di mediazione posta in essere da Turola con Guglielmo Miccichè al fine di procurare a Damiani l’importante sostegno politico del presidente dell’Assemblea regionale siciliana nella nomina dirigente di un’azienda ospedaliera, opera di mediazione avente indubbio carattere di utilità per Damiani”.
Il ruolo di Candela
La sentenza passa in rassegna il rapporti fra Antonio Candela, ex manager dell’Asp di Palermo e per ultimo, prima dell’arresto, scelto dal governo Musumeci per gestire l’emergenza Coronavirus in Sicilia, e l’imprenditore Giuseppe Taibbi. Quest’ultimo avrebbe ricevuto favori da Candela in cambio di soldi. Secondo il giudice, non importa conoscere l’ammontare complessivo della tangente, ma i pagamenti ci sarebbero stati.
Prelievo di soldi prima degli incontri
Taibbi avrebbe più volte prelevato soldi al bancomat prima di salire a casa di Candela. L’ex manager si è difeso sostenendo di avere creduto che Taibbi fosse stato inviato dai servizi segreti per stanare i corrotti. Una giustificazione a cui il giudice non dà alcun credito.
Candela avrebbe agito “con spregiudicatezza per consentire a Taibbi di guadagnare”. Erano amici e lo dimostra il fatto che quando non gli fu rinnovato l’incarico di manager Candela e Taibbi dicevano: “Ci ha preso in giro, ci siamo fidati, ci hanno ammazzato”. Parlavamo al plurale, “emblema del fatto che i due agivano come membri di un’unica compagine”.
Dossieraggio contro Musumeci
Ce l’avevano con il governatore Nello Musumeci che tagliò Candela dalle nomine, ripescandolo molto tempo dopo per l’emergenza Covid. Taibbi pensò “di mettere in atto un’attività di dossieraggio avente ad oggetto anche il presidente della Regione i cui contenuti sarebbero stati anche trasmessi ad esponenti del Governo della Repubblica”. Secondo il giudice si trattava di “attività intimidatoria che avrebbe a suo dire permesso a Candela di ottenere la nomina alla carica di assessore regionale”.
Candela non stoppò le intenzioni di Taibbi, al contrario le avrebbe avallate pronunciando le parole “ma tu non mi devi dire ‘se tu vuoi’, tu per il rapporto che noi abbiamo tutto quello che tu puoi fare fallo, mi segui non mi devi dire se”.
“Apparente specchiata moralità”
Quel giorno, scrive il giudice, cadde per l’ennesima volta la maschera di Candela “insignito commissario straordinario, noto per la sua solo apparente specchiata moralità”.
I difensori adesso studieranno le 800 pagine della motivazioni. Poi faranno ricorso in appello per il secondo capitolo della vicenda giudiziaria.