Berlusconi e la mafia: ombre e sospetti per l'eterno indagato

Berlusconi e la mafia: ombre e sospetti per l’eterno indagato

Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri
Per ventisei lunghi anni indagato quale mandante esterno delle stragi

PALERMO – Dipende dalla prospettiva con cui si guardano i fatti. Per alcuni Silvio Berlusconi, morto stamani, è stato e sarà per sempre il politico che ha pagato il pizzo, ha chiesto la protezione di Cosa Nostra, fatto i soldi grazie alla mafia e, in maniera orribile, si sarebbe spinto fino ad essere il mandante delle stragi di mafia del ’93 a Milano, Firenze e Roma, inclusi i falliti attentati a Maurizio Costanzo e allo stadio Olimpico. Ed ecco l’altro lato della prospettiva. Dal 1996 Berlusconi è sotto inchiesta per gli stessi fatti. Ventisette anni vissuti con la più infamante delle accuse. Troppi per qualsiasi indagato, troppi per un Paese che merita verità.

Il racconto dei pentiti

Partiamo dalle “certezze” inserite nelle sentenze passate in giudicato e frutto del racconto dei collaboratori di giustizia. Nel processo che ha portato alla condanna di Marcello Dell’Utri è stato ricostruito che nel 1974 Berlusconi incontrò a Milano il capomafia di Palermo Stefano Bontate. A parlare dell’incontro è stato il pentito Francesco Di Carlo. Il Cavaliere temeva di essere sequestrato e nella sua villa di Arcore arrivò un nuovo stalliere, il boss Vittorio Mangano, per proteggerlo. Poi, sempre nel processo, i giudici hanno messo nero su bianco che la protezione mafiosa fu garantita, con la mediazione di Dell’Utri “sia sul versante personale che su quello economico”.

La difesa

Siamo al capitolo sui presunti soldi riciclati dai boss investendoli nella scalata imprenditoriale di Berlusconi. Nessuna prova in tal senso. Il suo storico legale, l’avvocato Nicolò Ghedini, prematuramente scomparsi, dichiarò che “i flussi di denaro di Fininvest sono stati oggetto di plurimi accertamenti giudiziari conclusi definitivamente con le incontrovertibili dichiarazioni del dottore Giuffrida della Banca d’Italia, consulente della procura di Palermo, che ha escluso qualsiasi flusso illecito. Sentenze definitive hanno cristallizzato piuttosto che Berlusconi, la sua famiglia e le sue società sono state oggetto di molteplici, gravissime minacce ed alcuni attentati proprio da parte della mafia”.

Ombre e sospetti

Ombre, sospetti. L’onda della giustizia, già di per sé lunga, nel caso di Berlusconi è divenuta infinita. Per ultimo a Firenze per la terza volta hanno riavvolto il nastro della storia. Tra il 1996 e il 1998 l’ex premier e Marcello Dell’Utri – sotto gli acronimi di Autore 1 e Autore 2 – erano stati indagati per concorso negli eccidi del 1993. Tra il 1998 e il 2002 sempre Berlusconi e Dell’Utri – allora indicati come Alfa e Beta – la Procura di Caltanissetta ha contestato il presunto ruolo nella strage in cui furono massacrati Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Inchieste che si sono chiuse con un nulla di fatto.

L’uomo chiave era il pentito Salvatore Cancemi. Su Berlusconi era stato “generico e mutevole”, così scriveva il giudice che archiviò la prima inchiesta, su richiesta della stessa procura nissena, e le sue dichiarazioni “anguillose perché viziate dalla sua costante propensione a ridimensionare il proprio ruolo nei reati contestatigli”.

I ricordi tardivi

Cancemi ci mise tre anni – si era pentito, infatti, nell’estate del 1993 – per ammettere le sue colpe. Si giustificò invocando l’attenuante del travaglio psicologico, “che gli rendeva difficile d’un tratto uscire dalla mentalità di cosa nostra” e superare la “vergogna ad ammettere alcune cose”. Si paragonava, d’altra parte, a “una vite arrugginita che ci vuole del tempo per svitarla”.

E sul Cavaliere? “La genericità e la mutevolezza delle sue dichiarazioni a carico di Berlusconi e Dell’Utri – scriveva il giudice – potrebbe infatti spiegarsi, anziché con il tentativo di offrire agli inquirenti una notizia in suo possesso ridimensionando il suo ruolo nella fase deliberativa della strage, con il diverso tentativo – mal riuscito – di introdurre elementi fantasiosi e non facilmente verificabili”.

“Qualcosa di grosso”

Dinanzi ai giudici della Corte di Assise di Caltanissetta che lo condannarono per la strage di via D’Amelio, Cancemi motivò il ritardo delle sue dichiarazioni perché “i discorsi” di Riina su “queste persone che lui aveva nelle mani” (e cioè Berlusconi e Dell’Utri), “che lui ci diceva che erano quelli che è un bene per cosa nostra” lo preoccupavano, lo frenavano e lo inducevano a pensare che se avesse fatto i nomi sarebbe potuto accadere “qualcosa di grosso”.

La stessa Corte di Assise disse, però, che la storia della paura era una bugia visto che Cancemi “prima ancora di confessare la sua partecipazione alla strage, aveva già indicato delle circostanze che avrebbe dovuto tacere se questa fosse stata l’effettiva motivazione del riserbo. Egli infatti già in relazione alla strage di Capaci aveva dichiarato di aver appreso da Ganci Raffaele, mentre si recava in auto con lui presso la villetta di Capaci, che il Riina aveva incontrato persone importanti”.

Le parole di Graviano

Nel 2016 arrivarono le intercettazioni di Graviano, lui sì certamente stragista, che raccontava di quando “Berlusca… lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi… lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa…”. E cioè le bombe che dilaniarono l’Italia. Prima che le microspie registrassero queste frasi Graviano sapeva di essere intercettato visto che aveva messo in guardia il suo compagno di ora d’aria nel carcere di Ascoli Piceno. Bisognava fare attenzione perché gli “spioni” avevano piazzato le telecamere.

Berlusconi è tornato ad essere un indagato. Mica solo per stragi, anche per il fallito attentato a Maurizio Costanzo, il tentato omicidio del pentito Totuccio Contorno, per le bombe di Firenze, Milano e Roma. Il tutto inquadrato nel calderone della trattativa Stato-mafia e cioè nella stagione della minaccia dei boss alle istituzioni. Gli esecutivi minacciati erano quelli di Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e infine anche l’esecutivo di Silvio Berlusconi. Nel caso dei primi due a veicolare la minaccia furono i carabinieri del Ros. Quando andò al potere Berlusconi fu Dell’Utri a fare il lavoro sporco.

Da mandante a vittima

L’ipotesi era che il Cavaliere avesse stretto un accordo con i mafiosi per prepararsi la discesa in politica. Serviva un colpo per alla prima Repubblica alle prese con Tangentopoli. Il colpo furono le bombe che seminarono morte e distruzione. C’è un paradosso che non si può fare a meno di sottolineare. Secondo la ricostruzione dell’accusa al processo Trattativa (chiuso con le assoluzioni di politici e carabinieri), a differenza di quanto sostengono i pm di Firenze, Berlusconi e Dell’Utri non erano i mandanti delle stragi del ‘93 ma rispettivamente la vittima e il tramite della minaccia mafiosa.

Le intercettazioni sono state acquisite al processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia e trasmesse alle Procure di Firenze e Caltanissetta. L’obbligatorietà dell’azione penale ha obbligato, appunto, a tornare indietro nel tempo. Non solo perché le stragi sono avvenute venticinque anni fa, ma anche perché i protagonisti della nuova indagine sotto accusa c’erano già finiti. Tra il 1996 e il 1998 l’ex premier e Dell’Utri – sotto gli acronimi di Autore 1 e Autore 2 – erano stati iscritti nel registro degli indagati della Procura di Firenzeper concorso nelle stragi del 1993 in via dei Georgofili a Firenze, in via Fauro a Roma e in via Palestro a Milano. Tra il 1998 e il 2002, invece, Berlusconi e Dell’Utri – allora indicati come Alfa e Beta – finirono sotto accusa della Procura di Caltanissetta per il presunto ruolo nella strage in cui furono massacrati Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Inchieste che si sono chiuse con un nulla di fatto. Per ultimo i pm di Firenze si sono messi alla ricerca di una fotografia che ritrarrebbe Berlusconi assieme a Giuseppe Graviano. Si tratta della fotografia di cui ha parlato Salvatore Baiardo, che dei Graviano era un factotum. Un ultimo mistero, perché dello scatto non c’è traccia.


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