La tatua della donna che allatta? E' un inno alla maternità

La statua della donna che allatta? Un inno alla maternità, no agli stereotipi

Quando si eccede nel politically correct

“Dal latte materno veniamo”, è il titolo della statua in bronzo raffigurante una donna che allatta il proprio bambino, che la commissione del comune di Milano, che valuta la posa di opere d’arte in spazi pubblici, ha ritenuto lesiva delle sensibilità universali, in quanto si evincerebbero dalla stessa “sfumature religiose”.

Ti domandi come può una donna che dà nutrimento al proprio figlio essere giudicata portatrice di “valori non condivisi”.  Come possono ritenersi non condivisibili valori di amore e di cura?

Gli eccessi del politically correct

Com’è possibile che la maternità sia divenuta argomento scomodo? È questo a cui hanno portato secoli di lotte femministe? Prendere le mosse da battaglie sacrosante, condivisibili, auspicabili per poi precipitare negli eccessi del politically correct?

Sei grata alle donne che hanno combattuto anche in tuo nome la battaglia dell’uguaglianza di genere eppure, proprio in nome dell’emancipazione e della libertà faticosamente conquistate, andrebbe recuperata quella dimensione di semplicità, di naturalezza e di buon senso che permettono di non cedere ai fondamentalismi cui è possibile cadere nella battaglia del femminismo estremo.

Un mondo surreale

Pensi allora alle donne africane ed ai loro bambini avvolti da pezzi di stoffa a continuo contatto con il corpo della madre, in una terra in cui non solo si vive alla giornata ma letteralmente si sopravvive.

Un mondo difficile, talvolta surreale per le stesse donne costrette ancora a subire pratiche di mutilazioni genitali, in cui, però, l’allattamento è e rimane un atto di estrema naturalezza che non si esaurisce nello sfamare ma è anche un dare e ricevere amore. 

“La mia Africa”

Karen Blixen, nel romanzo “La mia Africa” scrisse che per gli africani il solo modo di controbilanciare le catastrofi dell’esistenza è quello di dare qualcosa in cambio. E questo è dato dal modo di rapportarsi agli altri, al tempo, alla vita che da sempre e con naturalezza le donne africane sanno attuare e preservare. 

Nell’occidente civilizzato e sviluppato, invece, perdiamo talvolta il senso dei gesti più semplici e naturali e l’allattamento di una madre, radice dell’amore ed energia della vita, rischia di passare come un comportamento divisivo, occasione di discriminazione e, dunque, da nascondere in nome non si sa bene di quali principi e valori.

Guardi negli occhi i tuoi figli e pensi a quanto sia straordinario nella sua normalità l’essere madre. Ma pensi anche ai bambini separati dalle madri emigrate per permettere ai figli una vita più dignitosa, al bimbo siriano il cui corpo riverso sulla spiaggia di Bodrum fece tristemente il giro del mondo, a quelli a cui è toccato in sorte di nascere dalla parte sbagliata del globo e vorresti stringerli a te come se anche tutti loro fossero i tuoi, di figli. 

Madri in potenza

Il concetto di maternità, allora, si amplia ed assume un significato più articolato e complesso. Perché le donne sono madri sempre, anche dei figli non propri, anche quando non hanno figli.

Madre lo si è in potenza. Madri sono quelle che fanno figli e quelle che non ne fanno, facendo intanto da caregiver a chi ne ha bisogno. Non c’è la maternità ma tante maternità quante sono le donne. 

Sostenere le maternità

La nostra società ha bisogno di valorizzare e di sostenere “le” maternità, senza battaglie di facciata, senza pregiudizi e senza cadere nella retorica del moralismo. 

In Inghilterra le donne diventano “persone con capacità gestazionali”; in Italia, un recente regolamento dell’Università di Trento ha imposto all’interno dell’Ateneo l’utilizzo del genere femminile nell’indicare la generalità delle persone, sia donne che uomini: la rettrice, le studentesse, le professoresse; sul presupposto che il maschile onnicomprensivo finisca per nascondere la componente femminile, discriminandola. 

Eppure, nessuno, dal 1948, ha mai pensato che la nostra Costituzione, nel riferirsi ai diritti dei “cittadini”, non si riferisca anche alle “cittadine”. 

Le battaglie contro gli stereotipi

E’ sacrosanto portare avanti le battaglie contro gli stereotipi di genere, anche, se del caso, passando per un’evoluzione del linguaggio. Ma senza cadere in pericolose estremizzazioni. Senza cadere nell’ossessione del politicamente corretto dobbiamo ancora avere e rivendicare la libertà di potere chiamare madre una madre e di potere ammirare una mamma che allatta. 

La battaglia dei diritti delle donne non può ridursi a stereotipi, non possiamo ingabbiare le nostre (per fortuna) diverse sensibilità in luoghi comuni o nel pensiero unico dominante perché se lì ci si ferma si rischia di perdere di vista l’obiettivo principale: quello di contribuire a costruire una società di pari diritti per tutti, senza distinzione di genere, ma anche e soprattutto di sostenere le donne e la maternità. Le madri, i padri ed i figli. In una parola, la famiglia. E facciamolo senza doverci vergognare.


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