Strage Borsellino, i pm bocciano Avola: "Era a Catania con il braccio rotto"

Strage Borsellino, Avola smentito: “Era a Catania col braccio rotto”

Storia di un killer e pentito fuori tempo massimo che calca il palcoscenico della Tv. E la verità si allontana

PALERMO – Non ci sono riscontri, anzi clamorose smentite al racconto del killer catanese pentito Maurizio Avola sulla strage di via D’Amelio. E sono i pubblici ministeri di Caltanissetta a scegliere di intervenire in maniera tranciante all’indomani della trasmissione che La 7 ha imperniato sulle roboanti dichiarazioni del collaboratore di giustizia.

I racconti di Avola sono il cuore del libro di Michele Santoro “Nient’altro che la verità” presentato ieri. E sono racconti su cui il procuratore aggiunto Gabriele Paci (al momento alla guida della Procura di Caltanissetta che a fatica sta riscrivendo la storia di via D’Amelio) stende un velo pietoso. Le parole di un comunicato a sua firma sono inequivocabili.

“Forti dubbi sulla veridicità del suo racconto”

Avola ha riferito di avere partecipato alla fase esecutiva della strage insieme a Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Aldo Ercolano e altri. Un racconto ricco di dettagli: “La macchina è stata imbottita di esplosivo da me a da altre due persone”. Sarebbe stato Avola a piazzare sotto il sedile della 126 una dozzina di candelotti di tritolo. Ha spiegato persino com’erano disposti, quanto pesavano e com’era messa le miccia.

Ed ecco la smentita di Paci: “I conseguenti accertamenti finalizzati a vagliare l’attendibilità di dichiarazioni riguardanti una vicenda ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie non hanno allo stato trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità. Dalle indagini demandate alla Dia sono per contro emersi rilevanti elementi di segno contrario che inducono a dubitare tanto della spontaneità quanto della veridicità del suo racconto”.

“Ha messo l’esplosivo? Aveva il braccio rotto”

Poi l’affondo ancora più esplicito: “L’accertata presenza dello stesso Avola a Catania, addirittura con un braccio ingessato, nella mattinata precedente il giorno della strage, là dove, secondo il racconto dell’ex collaboratore, egli, giunto a Palermo nel pomeriggio del venerdì 17 luglio, avrebbe dovuto trovarsi all’interno di un’abitazione sita nei pressi del garage di via Villasevaglios, pronto, su ordine di Giuseppe Graviano, a imbottire di esplosivo la Fiat 126 poi utilizzata come autobomba”. Come conferma la documentazione recuperata dai pm Avola era stato fermato ad un posto di blocco ed è impossibile che il gesso fosse finto per crearsi un alibi visto che c’è traccia scritta del suo accesso al pronto soccorso per la frattura.

Ricordi fuori tempo massimo

E non è neppure l’unico elemento che manda in frantumi la credibilità di Avola: “Colpisce peraltro che Avola, anziché mantenere il doveroso riservo abbia preferito far trapelare il suo asserito protagonismo alla strage di via D’Amelio attraverso interviste e la pubblicazione di un libro e lascia altresì perplessi che egli abbia imposto autonomamente una sorta di Discovery compromettendo così l’esito delle future indagini dopo che l’ufficio aveva provveduto a contestargli le numerose contraddizioni del suo racconto e gli elementi probatori che inducevano a dubitare della veridicità di tali sue ennesime progressioni dichiarative”.

Ed ecco il cuore della questione. Un racconto zeppo di contraddizioni in un contesto di dichiarazioni fuori tempo massimo e a rate. A Maurizio Avola, killer catanese di ottanta omicidi, la memoria è tornata ventisette anni dopo essere diventato un collaboratore di giustizia.

In silenzio per 25 anni

Innanzitutto si è ricordato che fu un commando di siciliani e calabresi ad assassinare, nel 1991 a Villa San Giovanni, il magistrato della Corte di Cassazione Antonino Scopelliti. Quel delitto avrebbe suggellato il patto fra la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese durante la stagione stragista. Avola dice di avere ucciso Scopelliti e assieme a lui c’era anche Matteo Messina Denaro. Lo racconta solo oggi, al termine di un travaglio psicologico che lo ha condotto a smettere di avere paura dei “circuiti massonici” a cui il boss trapanese è legato. Ci sono sempre gli uomini neri, gli infingardi di Stato a tappare la bocca dei pentiti.

Ora ha alzato il tiro. Si era dimenticato di un peccatuccio, di una cosa irrilevante, e cioè di avere fatto saltare in aria i corpi in via D’Amelio. Fiammetta Borsellino, figlia del giudice trucidato con gli uomini della scorta, ieri ha tagliato corto: “Di questo signore non parlo”, aggiungendo però, subito dopo, che “di depistaggio ne abbiamo già subito uno”.

I pentiti farlocchi

E cioè il depistaggio con cui è stato piazzato Vincenzo Scarantino, un delinquente di borgata, per decenni al centro della strage di via D’Amelio. I boss stragisti, quelli agli ordini di Totò Riina per intenderci, erano così sprovveduti da fidarsi di un malacarne di basso profilo. Erano solo bugie a cui tutti, pubblici ministeri e giudici per primi, hanno creduto senza porsi domande e che sono stati l’ossatura di una una dozzina di processi divenuti carta straccia.

Se ancora oggi non si conosce la verità sulla buia stagione delle stragi bisognerebbe avere coraggio di ammettere che la responsabilità è anche dei pentiti e del modo con cui sono stati gestiti. Perché Avola è solo l’ultimo di una lunga serie di collaboratori smemorati che si affacciano sulla scena processuale prima e televisiva poi per rilanciare tesi farlocche.

Le parole di Maria Falcone

“Alla luce delle precisazioni fatte dalla Procura di Caltanissetta, fermo restando l’assoluto rispetto per il diritto di cronaca, sarebbe stato utile ascoltare i magistrati che per anni hanno indagato sulle stragi del ’92 consentendo di smascherare il clamoroso depistaggio delle indagini sull’attentato di via D’Amelio – dice Maria Falcone-. Sentire la ricostruzione degli inquirenti avrebbe consentito di avere un quadro dei fatti basato su accertamenti e riscontri e non solo su dichiarazioni di personaggi che ritrovano la memoria dopo decenni. Sulle stragi mafiose continuano a essere troppi i lati oscuri e, dopo anni di falsi pentiti ritenuti credibili e tentativi di ‘inquinamenti’, i cittadini hanno diritto a informazioni complete”.  

“Rivedendo e rivivendo con dolore gli attacchi rivolti a mio fratello da Leoluca Orlando e Alfredo Galasso , – aggiunge – voglio solo ricordare che la storia ha stabilito dove la stava la ragione e dove il torto. A chi accusava Falcone di eccessiva vicinanza ai palazzi del potere ricordo solo che la legislazione antimafia, ancora attuale e fonte d’ispirazione per tanti Paesi, nasce proprio dal lavoro che mio fratello fece al ministero della Giustizia negli ultimi periodi della sua vita. Mi riferisco alla creazione della Procura antimafia, alla legge sui pentiti e alla nascita della Dia. Lavoro per cui fu criticato, isolato e di cui quasi dovette giustificarsi”.


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