Stragi e intrighi: quando a Catania “la mafia non esisteva” - Live Sicilia

Stragi e intrighi: quando a Catania “la mafia non esisteva”

“Questa è la città, nel 1992 come oggi. Meglio qualche discorso da salotto, senza esporsi però".

No, quel giorno la città non c’era. Non c’è mai stata in occasioni gravi come quella di quel 23 maggio. E non c’era pure il 19 luglio. E nemmeno per gli omicidi cosiddetti eccellenti della città: Fava, Famá, Lizzio, Bodenza, i primi che mi vengono in mente. Non c’è mai stata, Catania, a urlare la propria indignazione. Certo, ci sono stati cittadini, singoli esponenti di partiti (e nemmeno tutti i partiti), singoli esponenti sindacali (e non tutti i sindacati); ci sono state le personalità istituzionali (e ci mancherebbe). Ma non Catania, che queste cose le ha sempre viste dal chiuso delle proprie case. Chi si è indignato, a Catania lo ha sempre fatto nella comfort zone del proprio appartamento. I catanesi, esibizionisti per antonomasia, non sono mai stati capaci di esibire indignazione, rifiuto della violenza, messa all’indice di ogni forma di sopraffazione. È prevalsa sempre l’antica logica del “calati juncu”.

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Il quieto vivere, in una città dominata da logiche personali, di favori fatti e ricevuti, di prebende per i furbi o i sottomessi, è la cifra stilistica prevalente. Io li ricordo quei giorni. E lo choc per ciò che accadeva a Palermo era solo per intensità emotiva e civica superiore a quello per quanto a Catania non accadeva, e non è mai accaduto.

Eppure questa città, quando vuole, in piazza sa scendere. Ma lo fa solo per fare festa (le promozioni del Catania sono lì a dimostrarlo), non lo fa mai per mostrare solidarietà, dolore, empatia. Quella è roba che non ci riguarda. D’altronde, per quanti decenni è stata sposata la tesi, giornalistica e anche giudiziaria, che “a Catania la mafia non esiste ma c’è solo criminalità”? Era una tesi comoda, per tanti, forse per tutti. E per i morti ammazzati a centinaia degli anni ‘80 e ‘90 era un continuo ripetersi “tanto si ammazzano tra di loro”.

No, Catania non ha mai saputo-voluto reagire ai morti di mafia. Né a quelli “tra di loro” né a quelli di coloro che in questa città si sono battuti per denunciare, per dire come stavano (e in molti casi stanno) le cose, o anche solo per aver fatto il ripropone dovere di cittadino della Repubblica. Ha ingurgitato di tutto o, nel migliore dei casi, si è lasciata scivolare di dosso di tutto. Si è sempre detto: a differenza di Palermo, Catania non ha avuto tanti omicidi eccellenti. E dunque? Occorreva una strage di Capaci sotto casa per cominciare a capire che non è “affar loro”? Non ho mai condiviso questa analisi, molto assolutoria e poco ragionevole. Comoda forse, ma che fa a pugni con la realtà di una città da sempre impegnata a farsi gli affari propri. Che significa risolversi i propri problemi quotidiani con una telefonata all’amico o con una visita nella segreteria di qualche politico. E se questo è il modus vivendi, poi non si può andare in piazza a dire che la mafia fa schifo. Perché i comportamenti giornalieri, anche i meno gravi, contraddicono quella necessità di scendere in piazza. Pure se hanno ammazzato Falcone, Borsellino, Morvillo, e otto agenti di scorta. No, Catania non reagisce mai.

Come non indignarsi, di fronte a casi recenti come i tre “messaggi” lasciati ai ragazzi di Librino dei Briganti, e ai “loro” ragazzini che tolgono ogni giorno dalla strada? E invece nulla. Una cosa avrebbe dovuto fare l’amministrazione comunale in risposta: ristrutturare immediatamente il campo di rugby San Teodoro; i lavori sono ancora in corso, dopo anni. E l’amministrazione, stando ai capi dei Briganti, si è perfino dimenticata di esprimere una solidarietà anche solo a parole, di quella pelosa e inutile che finisce sui giornali, a questi ragazzi.

Questa è la città, nel 1992 come oggi. Meglio qualche discorso da salotto, senza esporsi però, o qualche trama alle spalle della gente perbene. Altro che scendere in piazza. Palermo ogni anno c’è. Catania no. E, da catanese, fa male doverlo constatare anno dopo anno.

Fabio Albanese

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