Mafia, potere, le Stragi del 1992 e quella Catania indignata - Live Sicilia

Mafia, potere, le Stragi del 1992 e quella Catania indignata

L'onda d'urto delle bombe di Capaci arrivò fino alle falde dell'Etna. La città, sgomenta, reagì con forza guidata dall'arcivescovo Luigi Bommarito, scomparso di recente.

CATANIA – Non è affatto vero che Catania sia una città indolente. Non sempre, almeno. Non quel sabato pomeriggio, quando il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca e gli agenti della scorta, saltarono letteralmente in aria sotto la spinta di 500 kg di tritolo a Capaci. Troppo forte quel botto, troppo pesanti quei lutti. Troppo sguaiati i festeggiamenti di quanti ordinarono quella macelleria (ma lo si scoprirà soltanto anni dopo). Catania rimase profondamente di sasso. Indignata come non mai. Fu tutto spontaneo, tant’è che alle 18 in piazza Università erano già in tanti. Sindacalisti, magistrati, attivisti vari e semplici cittadini. Un moto spontaneo, un passaparola velocissimo, più veloce degli attuali cinguettii su Twitter.

Allora il sindaco di Catania, Angelo Lo Presti, e il presidente della provincia regionale, Carmelo Rapisarda, erano a Parigi per le Giornate Belliniane. A tenere la piazza rimasero però altre istituzioni. Il prefetto Domenico Salazar, il questore Carmelo Bonsignore e – sopratutto – l’arcivescovo Luigi Bommarito, scomparso di recente, e volto simbolo della Catania di allora. Fu soprattutto lui a raccogliere l’invito di Adriana Laudani, segretaria del Pds etneo, storica militante del Partito Comunista e voce tutt’altro che timida dell’attivismo antimafia, di far suonare la campane a lutto. Una richiesta oltre le reciproche appartenenze politiche e culturali.

Le parole del capo della Chiesa catanese, raccolte dal quotidiano La Sicilia, sono solenni e ci dicono del dramma di quelle ore. “C’è da tacere, meditare, pregare, e comunque non perdere la speranza. La sconfitta è grave – disse Bommarito – ma sarebbe sconfitta mortificante e definitiva rassegnarsi. Chi conserva ancora un minimo di umanità e amor patrio non può essere latitante”.

Quelli non erano affatto giorni sereni. Dopo le elezioni politiche, la guerra tutta interna alla Dc tra Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti per il Quirinale paralizzò per giorni il Parlamento in seduta comune. Tutto questo mentre Catania doveva fare i conti con altre bombe, ma buone: quelle per dirottare il fiume di lava dell’Etna che per l’ennesima volta minacciava Zafferana.

Con il senno di poi, il racconto di quei giorni è ancora più cupo. Dopo neanche due mesi arrivò un’altra strage, quella di via D’Amelio, e l’omicidio dell’ispettore Gianni Lizzio. La campagna terroristica di Cosa Nostra contro le istituzioni Repubblicane era appena iniziata. “Non è un caso che sia stato ucciso proprio lui: Falcone era la memoria storica della lotta alla mafia. Era il cervello vivente della lotta nel ministero di grazia e giustizia”. Le parole di Enzo Trantino, uomo di legge ed esponente dell’allora Msi, registrano quanto fosse sfilacciato in quel momento lo Stato.

Le condanne in primo grado nel processo Trattativa sono la riprova storica che si scese a patti, che i vertici della Repubblica si sono seduti allo stesso tavolo con i mafiosi. La conferma che fosse in corso una guerra dalle dinamiche non convenzionali. Troppi misteri restano ancora aperti. Le recenti dichiarazioni di Maurizio Avola sul ruolo dei catanesi nella morte di Paolo Borsellino – sebbene smentite immediatamente dai magistrati di Caltanissetta – sollevano interrogativi assai inquietanti.

Ma torniamo al maggio ’92, a Catania. Perché non ci fu soltanto la folla di piazza Università: il giorno dopo arrivò anche l’abbraccio al Palazzo di Giustizia, a piazza Verga. Furono Pds e Rete a chiamare le oltre due mila persone che si accalcarono dinnanzi a un tribunale che non conosceva gli attuali accorgimenti di sicurezza. “I mafiosi e gli assassini sono tra noi, forse anche adesso – disse il sostituto procuratore Giuseppe Gennaro – ma dobbiamo imparare a reagire contro l’assuefazione e denunciare gli intrecci illeciti che questa città continua a tessere. Noi magistrati continueremo a fare il nostro dovere”.

La mafia non è più quella di allora, è meno forte. Tuttavia, il sistema è tutt’altro che ordinato e saldo. E non c’entra soltanto il Covid: il conflitto tra politica e magistratura in corso proprio da allora, ha finito con il delegittimare entrambi i poteri. Mentre sullo sfondo restano alcuni problemi pratici che nessuno è riuscito ancora a risolvere. “Il governo ha respinto anche per quest’anno le richieste di potenziamento degli uffici giudiziari”, disse il sostituto Francesco Puleio da quella piazza nel 1992. Una denuncia – non si è qualunquisti a dirlo – che non ha perso nulla della sua attualità.


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