Nelle linee programmatiche del governo Conte-bis sono indicati gli indirizzi del nuovo esecutivo in tema di equità fiscale.
Al punto 17 del documento, PD e M5s annunciano di voler lavorare a una «riforma fiscale, che contempli … la rimodulazione delle aliquote, in linea con il principio costituzionale della progressività della tassazione, con il risultato di alleggerire la pressione fiscale, nel rispetto dei vincoli di equilibrio del quadro di finanza pubblica. Allo stesso tempo, occorrerà completare, in misura efficace, la spending review, operando una revisione significativa delle voci di spesa. Analogamente si procederà a una revisione delle tax expenditures».
Dichiarano, in altri termini, di volere ridurre la pressione fiscale, attraverso la rimodulazione delle aliquote dell’Irpef, accompagnata – per esigenze di equilibrio dei conti – dalla revisione della spesa pubblica (spending review) e delle agevolazioni fiscali (tax expenditures). Viene inoltre specificato al punto 4 l’intendimento di diminuire in particolare le tasse sul lavoro (cosiddetto “cuneo fiscale”) a totale vantaggio dei lavoratori.
Si tratta di una visione opposta rispetto a quella del precedente governo, che si proponeva di realizzare l’obiettivo di ridurre l’imposizione sul reddito attraverso l’introduzione di un’aliquota unica molto bassa per tutti (flat tax), da finanziarsi in disavanzo.
Il successo di questo nuovo approccio dipenderà dall’effettiva capacità di identificare ed eliminare le numerose sperequazioni introdotte negli anni, che hanno alterato l’equilibrio del sistema tributario, riducendo significativamente il gettito (fenomeno noto come «erosione fiscale»). La riforma in cantiere potrebbe offrire l’occasione per correggere alcune distorsioni che hanno sino a oggi penalizzato il Mezzogiorno.
Tutte le statistiche economiche e anche il senso comune confermano che l’Italia è un Paese caratterizzato da un’economia duale, a causa del divario Nord-Sud. Basti ricordare che, secondo i più recenti dati ISTAT, fatto 100 il PIL pro-capite nazionale, quello della Sicilia si attesta a 61,1, meno della metà di quello della Lombardia, che è pari a ben 134.
Se guardiamo al numero delle medie imprese italiane, intese convenzionalmente come realtà con 50-499 dipendenti e fatturato tra 16 e 355 milioni di euro, secondo le ultime rilevazioni della fondazione Ugo La Malfa (dati 2016), solo 295 su 3.462 si trovano nel Mezzogiorno e solo 31 hanno sede in Sicilia.
Stando così le cose, il sistema fiscale dovrebbe essere articolato in modo da tenere conto delle rilevanti disparità economiche territoriali esistenti nel Paese. Sembra, però, che siamo lontani da questo obiettivo.
Si pensi alla tassazione delle società.
I redditi di s.r.l., s.p.a. e altre società di capitali sono assoggettati all’imposta Ires con aliquota unica, attualmente del 24%, che non varia al variare della dimensione dell’impresa.
La stessa aliquota nominale si applica, quindi, alla grande società per azioni quotata alla borsa di Milano, che realizza profitti milionari, così come alla piccola società a responsabilità limitata che gestisce un negozio a conduzione familiare nell’entroterra siciliano.
Se poi guardiamo alla pressione fiscale effettiva, le disparità sono ancor più evidenti e favoriscono le grandi imprese del Nord, a discapito delle medie e queste ultime a svantaggio delle minori.
Uno studio pubblicato da Mediobanca e Unioncamere nel 2018 ha messo in luce che l’imposizione sui profitti delle grandi imprese, con almeno 500 dipendenti (dati 2016), è stata pari al 27,6%, mentre le imprese di medie dimensioni hanno sopportato un carico del 32,3%.
Quanto all’articolazione territoriale del prelievo, lo stesso studio afferma che, sempre nel 2016, l’imposizione sui profitti delle imprese italiane è stata del 32% al Nord e al Centro e del 35% al Sud e nelle Isole.
Le imprese del Mezzogiorno sono state quindi mediamente assoggettate a un carico fiscale di ben tre punti più elevato rispetto a quello applicato alle società con sede nelle aree più sviluppate. Queste differenze sono accentuate, tra l’altro, dalla maggiore incidenza sulle imprese del Nord di alcune agevolazioni ad elevato impatto, molte delle quali – pur essendo formalmente utilizzabili da tutti – sembrano ritagliate apposta per il tessuto economico di quei territori.
Basti pensare al cosiddetto patent-box, un incentivo che consente di ottenere l’esenzione dall’IRES del 50% dei redditi prodotti con l’uso di software, brevetti, know-how, disegni originali e simili.
Ne hanno beneficiato soprattutto le grandi aziende proprietarie di marchi prestigiosi nel settore della moda, quasi tutte concentrate nell’Italia settentrionale; ciascuna di esse, grazie a questo incentivo, ha realizzato risparmi fiscali anche per decine di milioni di euro.
Lo stesso dicasi per l’iper-ammortamento, legato a investimenti funzionali alla trasformazione digitale dei processi produttivi nell’ambito delle linee-guida previste dal piano industria 4.0 o al credito d’imposta per investimenti in ricerca e sviluppo, misure che, anche se sono, sulla carta, accessibili a tutti, sono state pensate per favorire le aziende più strutturate, che, come si è visto, al Sud scarseggiano.
Per i grandi gruppi multinazionali i vantaggi sono ancora più evidenti. Questi possono beneficiare di accordi con il fisco italiano (tax rulings), in base ai quali possono concordare preventivamente con l’Agenzia delle entrate le modalità di calcolo di alcuni costi (c.d. transfer pricing, cioè prezzi di trasferimento infragruppo) sostenuti in favore di società controllate estere, che sono solitamente situate in paesi a bassa fiscalità. È evidente che, più elevati sono i costi riconosciuti alla società italiana in favore della consociata estera, minori sono i tributi versati allo Stato.
Si tratta, ancora una volta, di vantaggi formalmente accessibili a tutti, ma di fatto utilizzabili soltanto dai gruppi transazionali, dei quali al Sud non v’è quasi traccia.
È vero che esistono nel nostro ordinamento anche numerose agevolazioni rivolte alle piccole realtà produttive e non si deve certo inibire l’adozione di misure finalizzate al perseguimento di importanti obiettivi di politica economica, ma l’impressione – confermata dai dati sopra richiamati – è che il sistema nel suo complesso produca una pressione fiscale effettiva sperequativa, che favorisce le imprese al crescere della loro dimensione e aggrava impropriamente e implicitamente gli oneri tributari posti a carico delle aziende operanti nelle aree più svantaggiate.
Analogo problema si pone nel campo della tassazione delle persone fisiche.
Il reddito delle persone fisiche, in linea teorica, viene oggi tassato in misura progressiva, cioè crescente più che proporzionalmente al crescere del reddito, con aliquote comprese tra il 23 e il 43%.
Nel corso degli anni sono stati, però, introdotti vari regimi fiscali sostitutivi di larghissima applicazione che sottraggono alla progressività ampie fasce di redditi, assoggettandoli ad aliquota unica. Ad esempio, le obbligazioni sono tassate al 26%, mentre i redditi da locazione al 21%. In mancanza dei regimi sostitutivi questi redditi sarebbero tassati fino al 43%.
È evidente che queste misure vanno a vantaggio dei contribuenti con redditi più elevati, che sono – ancora una volta – concentrati nelle aree più ricche e che le conseguenti distorsioni territoriali non riescono a essere compensate da alcune – pur lodevoli – misure recentemente introdotte per favorire il Sud, come l’imposta sostitutiva per i pensionati stranieri che trasferiscono la residenza nel Mezzogiorno, nel solco del cosiddetto «modello Portogallo».
Gli interventi in materia di equità fiscale si concentrano solitamente sulla variazione del prelievo fiscale al variare dell’ammontare del reddito (cosiddetta discriminazione quantitativa), o al variare della fonte, ad es. redditi d’impresa e di lavoro (discriminazione qualitativa). In questa logica si inquadrano, rispettivamente, la revisione delle aliquote e la riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori, che il prossimo governo ha dichiarato di volere realizzare.
In un Paese a economia duale come l’Italia occorrerebbe, però, tenere in adeguata considerazione anche il fenomeno della discriminazione territoriale implicita, qui delineato. Infatti, l’introduzione di agevolazioni della quali in concreto possono beneficiare prevalentemente categorie di contribuenti che sono concentrate in determinate aree economiche, può comportare, a parità di gettito complessivo e in mancanza di adeguate misure compensative, un impoverimento relativo delle zone del Paese in cui minore è la presenza dei beneficiari, amplificando le differenze geografiche.
Il sistema tributario andrebbe, quindi, complessivamente ripensato, alla luce dell’obiettiva esigenza di ridurre le discriminazioni territoriali implicite introdotte negli anni o di compensarle con agevolazioni aperte a tutti, ma specificamente costruite per le esigenze del tessuto produttivo meridionale.
Non sembra proficuo, invece, concentrarsi sull’ormai annosa richiesta di forme di fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno; queste istanze, salve limitate eccezioni (ad es. le Zone Franche Urbane) hanno prodotto scarsi risultati pratici, anche a causa degli stringenti limiti imposti dal diritto europeo e hanno contribuito ad alimentare le tesi che mettono in risalto l’esistenza di un Sud piagnone e assistenzialista.
Il Meridione, probabilmente, non ha bisogno di alcuna «fiscalità di vantaggio», ma può invocare a pieno titolo – anche attraverso un lavoro congiunto tra Ministero dell’economia e Ministero del Sud – l’eliminazione o quantomeno la progressiva attenuazione o compensazione delle forme di «fiscalità di svantaggio» attualmente presenti nel sistema.
Il conseguimento di risultati concreti in questo campo sarebbe di primaria importanza per la crescita del Paese, la quale non può che passare dal maggiore sviluppo delle aree che devono ancora esprimere appieno il loro potenziale.