In questi giorni si è parlato molto della sentenza della Corte di Appello di Bologna che ha ridotto da 30 a 16 anni, la condanna dell’omicida (reo confesso) di Olga Matei. Condanna dimezzata perché l’uomo avrebbe agito in preda ad “una tempesta emotiva” determinata dalla gelosia. La pronuncia ha suscitato molte polemiche, e il termine “tempesta emotiva” è stato agitato come una clava a sostegno di argomenti come “ritorno al passato”, “precedente pericolosissimo”, “arretramento giuridico e culturale” . Non vi dico sui social. Si è ripescato, addirittura, il delitto d’onore.
Vi devo dire che già, leggendo con un minimo di attenzione, ed oltre i titoli, i vari articoli di stampa, mi ero reso conto che probabilmente le polemiche nascevano da una disinvolta semplificazione. Qualche giorno fa, finalmente, ho avuto modo di leggere la sentenza, ed ho avuto la conferma di ciò che era solo un vago sospetto. E’ bene dirlo con chiarezza: I giudici hanno ribadito la sussistenza dell’aggravante di avere agito per motivi abietti o futili. Insomma, niente sconti e nessuna indulgenza per il fattore “gelosia”. Chi volesse uccidere il partner che gli ha fatto le corna, è avvisato.
Hanno però ritenuto di concedere le cosiddette attenuanti generiche, per una serie di elementi, quali il contegno processuale dell’imputato, la sua confessione, l’avvio di un percorso di risarcimento alla figlia della vittima, la sua situazione di notevole fragilità, idonei ad influire sulla misura della responsabilità penale. In buona sostanza, quello della “tempesta emotiva” è stato solo uno dei tanti passaggi della decisione. Ma il fatto che da una decisione articolata, che ha fatto leva anche su precedenti giurisprudenziali della Cassazione, sia stata estrapolata una sola espressione (peraltro riportata in una perizia psichiatrica), decontestualizzandola da un intero apparato motivazionale, la dice lunga su quanto sia facile restare imbrigliati in una sorta di canto delle sirene.
Nel nostro paese questo accade spesso. Troppo spesso. Ultimamente ho sentito di polemiche per la sentenza della Corte di Appello di Ancona che ha mandato assolti gli imputati perché “lei era troppo mascolina”. Ed è di ieri la notizia del GIP di Genova che ha concesso le generiche ad un uxoricida. Sarebbe bene leggerle, anche queste sentenze, prima di criticarle. “Vedere cammello, pagare moneta”.In fondo non è difficile.
Vedo però che molti, invece, preferiscono “Una frase, un rigo appena”. Come il testo di una vecchia canzone di Luciano Tajoli che mi sta venendo in mente. La cantava sempre mio padre. Il punto è che “una frase, un rigo appena” finiscono spesso col diventare il nucleo centrale della notizia. Cosa che produce effetti fuorvianti che minano, fino a ridicolizzare, la credibilità della giurisdizione, specie a fronte di fatti di cronaca che toccano, giustamente ed inevitabilmente, “il punto G” della coscienza collettiva.
E non è questo quello di cui abbiamo bisogno. Viviamo in tempi in cui tutto viaggia alla velocità della luce, e dove tutto deve essere corto, essenziale, spremuto come un limone, liofilizzato. Le comunità virtuali dei social, per quanto sterminate nelle loro dimensioni, hanno finito col restringerci in spazi stretti, strettissimi, che non sono mai salutari. Basta un nulla e scoppia il finimondo. Le migliori amicizie sono naufragate in una tenda da campeggio. Anzi, in una vacanza in barca a vela.
“Una frase, un rigo appena”. E’ come se in una piazza super affollata qualcuno si mettesse a gridare “c’è una bomba”, e tutti a correre alla ricerca di una via di fuga. Solo che spesso la bomba non c’è. Ma il panico rimane, e i danni pure.