Il tragico naufragio della Costa Concordia sugli scogli dell’isola del Giglio ci ha fatto conoscere ancora umane miserie e straordinari eroismi. L’imbarazzante figura del comandante Schettino e il pilatesco comportamento degli altri potenziali responsabili del disastro. Il dramma sconsolato dei familiari delle vittime e il racconto agghiacciante dei sopravvissuti. L’angoscia dei familiari dei passeggeri dispersi e il freddo resoconto delle operazioni di recupero delle salme. E poi, intorno a questo, l’insopportabile circo mediatico del dolore in diretta TV che indugia nella rappresentazione a puntate delle tragedie altrui, arricchita da dibattiti fra esperti e consulenti nei salotti televisivi, e dall’overdose di grafici e modellini che riproducono i luoghi teatro della tragedia. Un’abbuffata un po’ rivoltante dove non si sa se a prevalere sia la furbizia di chi tiene su l’audience con espedienti di spaventoso cinismo o la morbosa curiosità un po’ guardona dei telespettatori che tanto somigliano a quegli automobilisti che bloccano il traffico stradale per fermarsi a guardare un incidente all’incrocio.
Grottesca, poi, è apparsa la polemica scoppiata fra testate giornalistiche, che ha preso avvio da un editoriale sul settimanale tedesco Der Spiegel dove si è fatto un inaudito parallelismo fra il capitano Schettino e l’italiano-tipo, sostenendo che solo un italiano, e non certo un tedesco o un britannico, avrebbe mai potuto comportarsi come aveva fatto il comandante della nave. Ingrata e razzista considerazione che ha finito per innescare una becera polemica che, in un eccesso di legittima difesa, ha indotto un giornale italiano a titolare con lo slogan “A noi Schettino, a voi Auschwitz”, così esplicitamente adottando l’equazione tedeschi = razzismo e sterminio degli ebrei.
È la deriva della rissa mediatica, del corpo a corpo come mezzo di polemica politica che ha caratterizzato gli ultimi decenni della storia del nostro Paese, e che auspichiamo divenga presto soltanto un brutto ricordo del passato.
Oggi in Italia si respira un nuovo clima di ascolto e rispetto reciproco, che può essere il terreno più idoneo per avviare con spirito costruttivo un dialogo fra le parti interessate a una stagione di riforme. Ma non basta solo uscire dal tunnel del clima della contrapposizione continua e della delegittimazione dell’avversario. Non è solo questione di stile, insomma. Bisogna anche cambiare i contenuti, superando le semplificazioni e gli stereotipi che hanno dominato la scena per anni.
Sempre per parlare di Germania, qualche giorno fa sono stato in un’importante città tedesca a parlare di mafia ed antimafia, nazionale ed internazionale, in un convegno al quale partecipavano anche esperti, magistrati ed investigatori di quel Paese. E ho dovuto amaramente constatare che spesso gli schematismi e i luoghi comuni imperversano anche negli ambienti più insospettabili. E della cosa mi sono reso conto quando ho sentito autorevoli “addetti ai lavori” tedeschi pronunziarsi sottovalutando le chances di diffusione del fenomeno mafioso nel nord Europa, secondo la teoria che il pesce (cioè la mafia) ha bisogno dell’acqua, e che in Germania non ci sarebbe acqua dove il pesce-mafia possa nuotare. Osservazione, questa, che denota la diffusa convinzione che la mafia trae copertura e alimento da culture e mentalità localizzate solo nell’Italia meridionale, non rendendosi conto perciò che per la mafia finanziaria di oggi quel che più conta è invece trovare opportunità crescenti di reinvestimento dei capitali illecitamente accumulati, opportunità che si presentano sempre più spesso nelle regioni più ricche del nord Italia e del nord Europa, anziché nelle regioni meno sviluppate del meridione.
Falsi stereotipi e triti nazionalismi che bisogna saper contrastare se si vuole costruire un’Europa davvero forte e solidale.