Tremendo e Vecchio Cinema Zen | "Così hanno ucciso la speranza" - Live Sicilia

Tremendo e Vecchio Cinema Zen | “Così hanno ucciso la speranza”

(Foto d'archivio)

La campagna elettorale inonda di santini la periferia. Ma chi ascolta le persone? Le storie di chi lotta. E di chi si è arreso.

Il reportage
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PALERMO – Perché raccontare ancora lo Zen, dopo tante parole? Perché c’è una campagna per le Amministrative che ha incatenato la periferia più estrema e riconosciuta di Palermo nel luogo comune di tutte i vizi o di tutte le virtù, a seconda dell’interesse, senza toni in chiaroscuro. Perché troppe sono le parvenze che depistano nella narrazione delle contrapposte macchine del consenso, oliate a puntino. Chi ascolterà, nel clamore, la voce delle persone che si agitano, sepolte sotto la carta dei santini elettorali?

Ma questa è soprattutto la storia di un ipotetico caffè in piazza. Un ragazzo che allo Zen abita e che ha tentato fortuna altrove si manifesta, all’improvviso, come un’apparizione, nel confessionale di Facebook. “Sai, vengono tanti politici, quaggiù. Torneranno dopo, quando resteremo soli e abbandonati? Io ho tanta disperazione e tanto rammarico”. Messaggini, un po’ di conforto spicciolo: “Prendiamo un caffettino insieme e ne parliamo?”.

Anche lui – l’amico virtuale e non solo – ha cercato, come tanti, una via di fuga dal ghetto. Un impiego precario, qualche soldino da parte, una fievole brace di speranze da attizzare. Poi il ritorno e l’amaro calice, bevuto fino all’ultima goccia, condensato in una frase: “Purtroppo, alla fine, sono rimasto prigioniero qua, come tutti. Il caffettino? Perché no…”.

Quale migliore occasione, dunque, per rivedere il Vecchio Cinema Zen, lo schermo pieno di immagini, trame e figure che si ripetono e si rincorrono, come se nulla dovesse cambiare mai. Quale più acuta opportunità per verificare se le retoriche delle squadre in campo intercettano un briciolo di verosimiglianza. Eccolo il Vecchio e Tremendo Cinema Zen in una settimana di maggio dai colori violentissimi, con i suoi protagonisti, le sue comparse e i suoi sogni che solleticano la tristezza.

Appuntamento accanto a una panchina di piazza Zappa, poco distanti dal bar ‘Barbara’. A metà mattinata dell’amico di chat non c’è ancora traccia. Tanto vale passeggiare un po’, nell’attesa. Una scritta sul muro della parrocchia fa mostra di sé, a benevola prefazione: “Scegli una strada, chiudi gli occhi, esprimi il tuo desiderio, ora credi con tutto il tuo cuore”. La chiesa di San Filippo Neri, governata da padre Miguel Pertini, divide lo Zen 1, che sta al di qua, dallo Zen 2, che sta al di là. Ora, è come se un proiezionista attempato e sicuro del fatto suo cominciasse, lentamente, con studiata perizia, a mescolare insieme maschere e attrezzi di scena.

Prima inquadratura. Oltre il cancello della canonica, si manifesta la zona più degradata. Dai casermoni seminati per via di un’architettura creativa, sbucano ombre un po’ sospettose. C’è qualcuno che si offre di accompagnare per un giro e di esercitarsi per favorire le relazioni. Un ragazzo si avvicina, prende confidenza, decide di fidarsi e di spiegarsi, quasi per stappare, da un silenzio opprimente, un grido troppo a lungo compresso.

“Chiamami Dybala – esordisce -, vado in Curva Nord e tifo, a sangue, per il Palermo. Facevo l’aiuto cuoco in un ristorante di Mondello. Sono bravo. Mi piace cucinare il pesce spada, ma me la cavo benissimo anche con il risotto alla marinara. Sono stato male e ho perso il posto. Mio papà era un bravissimo chef, ha lavorato in tutti i miegghiu locali. Io ho imparato il mestiere da lui. Mia sorella è tranquilla, fa la sciampista. Io, adesso, mi sono aperto una bancarella ambulante di panini con la salsiccia, anche se guadagno poco. Però non ci vado a rubare. Mi piacciono i soldi, mi piace di più il mio futuro. Ho ventisei anni”. E si dilegua, come era arrivato, tra i cespugli e le oscurità di un casermone.

Altri frammenti biografici sono intrisi di minore tenacia legalitaria. Allo Zen 2, si narra di ‘Giuseppe’ e ‘Maria’, soprannominati così perché genitori di un bellissimo bimbo, dai lineamenti celestiali. Giuseppe è finito in cella per spaccio, che è l’attività primaria del Pil sommerso da queste parti. Nella sua pena, ha incontrato un educatore in gamba. Si è pentito, è uscito di galera con l’idea di capovolgere il corso del suo destino. Ha invocato un’occupazione; un po’ per la crisi, un po’ perché, quando dici ‘Zen’, ti chiudono le porte in faccia, non ha trovato nulla. Sbagliato, ma ovvio, il ritorno alle dosi da rivendere.

Quaggiù, nell’epicentro di una disperazione, sono calati i falchi della preferenza. Non c’è una porta di casa o l’ingresso di un negozio, senza un’iconcina in odore di candidatura talmente sorridente che potrebbe essere scambiata per il manifesto della prodigiosa ugola neo-melodica sulla cresta dell’onda. Tra discariche rigogliose e i resti del droga party della sera prima, si materializzino due 619, in contemporanea. Una ragazza, chissà quanto ironicamente, si segna la fronte con la croce, annotando l’orario – l’una del pomeriggio – come per un evento miracoloso. Quaggiù – spiegano – è difficilissimo che passi un autobus, però, due addirittura…. Saluti, strette di mano e la promessa un po’ bugiarda di rivedersi.

Seconda inquadratura del Vecchio Cinema Zen. In piazza, alcuni anziani che sembrano scorporati da una canzone di De Andrè si sfidano a scopone e non alzano nemmeno un sopracciglio dalle carte, presi come sono dal brivido del settebello. Una signora in pigiama verde si aggira tra marciapiede e marciapiede. La scenografia somiglia quella di un villaggio da western di Sergio Leone, separato dal resto della città.

Più in là, ai confini, ecco il bar Cherì, consigliato per le arancine al burro. Un drappello si affaccenda intorno a volantini e striscioni. “Vuoi sapere per chi votiamo? E poi lo scrivi?”. No, potete raccontare solo chi siete. Si aprono con lo stesso bisogno di spezzare a un lunghissimo mutismo, con l’identica urgenza del ragazzo di prima. Una donna simpatica, piccolina, con i capelli neri raccolti in una coda si presenta: “Io sono Antonella Brancato, ho quarantotto anni, mio marito, Maurizio, due figlie di diciotto e di tredici anni. La seconda studia, la prima è a spasso. Sono disoccupata, pure mio marito è disoccupato. Come campiamo? Con il sacrificio e grazie a mia suocera che vive con noi e prende seicento euro di pensione. Se me ne vorrei andare da qui? Sì, ma porterei lo Zen con me, ncuoddu”.

Un’altra donna, carnagione chiara, occhiali, sguardo mite: “Sono Domenica Morici. Mio suocero era il mitico Giuseppe Venturini. Qui lo conoscono tutti. Lo chiamavano U’ Curò ed era famoso perché vendeva caramelle e gelati davanti alle scuole la mattina e, il pomeriggio, a Pallavicino. La sua attività è passata al figlio, mio marito. Grazie a questo e al fatto che vado a servizio, tiriamo avanti”. C’è chi si adopera come camionista per venti euro al giorno. Chi si impegna come badante e guadagna diciassette euro a notte.

In quasi tutte le sue biografie e le sue metafore, in questo e nell’altro set, il Vecchio Cinema Zen rimanda il sentore bruciaticcio di una speranza con le ali incenerite. E’ il focus della cinepresa, mentre ogni esistenza si rimpicciolisce nel suo diminutivo. Il ragazzo che apprendeva l’arte da cuoco imbottisce panini e non maneggia più l’imponente ruota di pesce spada. Antonella sopravvive con la pensioncina della suocera; desidererebbe scappare e, allo stesso tempo, reggere tutto. Domenica ‘tira avanti’ con i gelati del marito e con il suo coraggio. C’è un minimalismo crudele, un finale che mozza le ambizioni. Sono tutte pellicole in bianco e nero con identico svolgimento. Sminuzzano la grande trama di chi vorrebbe una vita diversa, eppure, non può averla.

Roberto Spataro è stato baciato da un epilogo non comune. Figlio dello Zen, laureato in chimica farmaceutica, figlio di una collaboratrice scolastica, Antonina, e di un venditore ambulante, Giuseppe, che l’hanno sorretto senza tentennamenti. “I miei – dice – si sono tolti il cibo dalla bocca, affinché studiassi. Credevano nell’impegno, nella possibilità di risalire. Grazie a loro, sono diventato un uomo libero”. E c’è Vittorio, candida capigliatura, magliettina rossa, che rammenta a se stesso una giornata gloriosa, quando, da Roma, ‘scese’ Berlinguer per approdare tra i diseredati e le case sgarrupate. Rievoca l’accaduto, gonfiando il petto, Vittorio. Che splendido kolossal in costume fu. La politica e la sinistra si accorgevano degli ultimi e costruivano la sceneggiatura del grande riscatto. Belle bandiere al vento, in stile Pasolini. Orazioni appassionate. Compagne e compagni. Sembrava che tutto dovesse mutare. Sembrava… Erano gli anni Ottanta.

Adesso, quaggiù, la città delle ipocrisie, richiamata dal rintocco delle urne, si china sul corpo della città miserabile, che non è mai stata città. La accarezza con le solite promesse, l’abbraccia e le garantisce: non ti lascerò sola. Sembrava fosse amore. Sembrava…. Invece è campagna elettorale. Il proiezionista ignoto ridacchia nel suo sgabuzzino immaginario.

La terza inquadratura del Vecchio Cinema Zen sa di ciambelle calde, trottole di plastica avveniristiche, zaini, quaderni e merendine: la scuola ‘Sciascia’, a due passi dalla chiesa. Alle otto del mattino, professori e alunni entrano, condividendo spine e gioie, tra il dovere di insegnare e la necessità di imparare. I motti di Cicerone e Orazio sgocciolano, disciolti, dai registri degli insegnanti di lettere che si sperimentano in ben più complesse traduzioni. Il preside, Giuseppe Granozzi, chiacchiera da un ufficio con le sbarre alle finestre, da cui si intravvedono i casermoni e il cielo. Appena sopra, la sua scrivania, un ritratto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, una foto istituzionale del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Esorcismi della legalità e dell’antimafia, croci di legno contro i vampiri che aspettano oltre il portone. Altri riflessi in bianco e nero.

“Qui ho insegnato – racconta il professore Granozzi -. Sono preside da quattro anni, penso che la missione della scuola sia fondamentale nelle aree a rischio. Qui, tra questi banchi, potrebbero esserci il dottore di domani, il futuro architetto, il giornalista… Ma non andrà così e sappiamo perché: si tratta di scelte politiche. Vogliamo discutere di opportunità? La dispersione scolastica, ovviamente, è il problema principale. Quando un ragazzo si assenta per più di otto giorni in un mese, scatta la segnalazione. Gli assistenti sociali sono pochi, ma operano bene. Noi inseguiamo progetti su progetti”. Di solito, dopo la terza media si intraprende la via della droga, si accede alla catena di montaggio dei pusher. E’ così, preside? “Non sempre – a domanda risponde -. Però, il pericolo esiste e cerchiamo di contrastarlo. Gli insegnanti sono fantastici. C’è chi sopporta la stanchezza di tanti anni di servizio e ha scelto di restare e, nonostante tutto, si spende. C’è chi ha il sacro fuoco dell’inizio. Abito in centro e mi trovate al mio posto ogni giorno alle otto. Sono a capo di un’azienda di settecento alunni e novanta docenti”.

Nei corridoi, ci si insegue. Due ragazzini giocano a pallone, subito sommessamente rimbrottati. Non puoi fare la voce grossa, perché nessuno ha paura. Parecchie di queste piccole anime sdrucite si misurano con la vera violenza, appena varcato il perimetro della salvezza. Cosa gli importerebbe di un rimprovero?

Le professoresse Maria Maggiore e Caterina Cusenza tra le decane dell’istituto, con ventitré e ventisei anni di servizio, hanno album di memorie conservati. “Non voglio riportare esperienze brutte – dice la professoressa Maria – ho quasi sempre incontrato ragazzi meravigliosi, capaci di reagire e di inventarsi l’allegria dove non ci sarebbe stato il motivo. Ne avevo uno con un retroterra familiare tristissimo: il papà alcolizzato, la mamma che sbarcava il lunario con mille lavoretti. Lui leggeva ogni mattina il giornale con un impegno e una curiosità ammirevoli, voleva sapere tutto, era affamato di informazioni”. “Un mio allievo – continua la professoressa Caterina – ora suona il clarinetto in una filarmonica in Norvegia. Sono orgogliosa di lui e dello Zen”. Ed è un rammendo di senso, subito squarciato da una domanda densa di incognite: che fine ha fatto il lettore precoce di giornali? Quel ragazzino col papà alcolista e una mamma-angelo dove mai sarà? La professoressa Maggiore scuote la testa. Non si sa.

“Scegli una strada, chiudi gli occhi, esprimi il tuo desiderio, ora credi con tutto il tuo cuore”. La scritta sul muricciolo della chiesa lampeggia, indicando il ritorno. Una panchina. Un messaggino laconico e dolente: “Non vengo, mi vergogno”. L’amico di facebook, dunque, mancherà. E di cosa si vergogna? La risposta è filmata nelle storie, nei volti, nelle vicende, nei silenzi. La speranza è un fiore calpestato sul ciglio della strada, anche se si ostina a sbocciare tra la gente minuta. Se sei buono, ci stai male, finisci col credere che sia una maledizione, una colpa, un destino.

La piena del dolore appare inarrestabile, a dispetto dei sogni.Troppi bambini crescono minacciati. Troppi padri trascorrono gli anni tra galera e casa, fino a non saperle più distinguere. Troppe persone perbene impazziscono di impotenza. Le donne hanno guance scavate e la pazienza di chi sopporta l’intero peso del mondo. Sono recluse, le donne. Il cielo è un lembo azzurrino tra le grate. Tremendo e Vecchio Cinema Zen con le sue inquadrature in dissolvenza.

Rimane solo un pizzico di dolcezza da appuntarsi tra labbra e cuore, proprio alla fine. Quaggiù, almeno, il caffè lo sanno fare.


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