PALERMO – Un giorno vola a Roma a cercare un accordo col governo nazionale. Il giorno dopo in giunta decide di impugnare gli atti dello stesso Ministero dell’Economia. Rosario Crocetta una settimana fa ha deciso di avanzare ricorso alla Corte costituzionale contro il decreto del Mef col quale si rendono attuative le norme sul “concorso al risanamento della finanza pubblica”. Si tratta, in pratica, della quota che ogni anno lo Stato chiede alle Regioni e agli enti locali come “partecipazione” alla riduzione del debito pubblico. Alla Sicilia, una delle richieste più alte: circa 1,3 miliardi di euro. Il governo ha impugnato il decreto che nello specifico destina allo Stato alcune entrate tributarie che, Statuto alla mano, dovrebbero essere incassate dalla Regione.
Una cifra che, da sola, consentirebbe in pratica di colmare l’attuale disavanzo del bilancio che ammonta appunto a 1,4 miliardi. Una cifra che, però, la Regione sta cercando di recuperare in altro modo. Tramite, appunto, la “trattativa” con Roma che ha celebrato due appuntamenti molto vicini, ieri e lunedì scorso. Un contenzioso che avrebbe già portato al primo risultato: il reperimento della copertura finanziaria, da parte del Ministero, della quota necessaria per chiudere il bilancio 2016. Somma ricavata da una serie complessa di operazioni che vede però anche l’ipotesi di revisione dello Statuto siciliano. Adesso, i tecnici di Palazzo Chigi e del Ministero dell’Economia dovranno anche trovare le coperture per il 2017 e il 2018. Lo scoglio più difficile da superare al momento pare quello. Un fatto che trascina con sé altre questioni, come la possibile stabilizzazione degli oltre 22 mila precari di Comuni ed enti locali che il sottosegretario Davide Faraone ha, di fatto, subordinato all’approvazione per il triennio di quell’accordo.
Ma pochi giorni fa Crocetta, tra una riunione e l’altra a Roma, ha deciso di proporre ricorso innanzi alla Consulta contro il decreto del Mef del 30 settembre 2015. E alla base del ricorso diverse le considerazioni. Intanto si parte proprio dalla considerazone che quasi 1,2 miliardi di spese in più tra i livelli del 2013 e quelli del 2016 siano dovute proprio all’aumento della richiesta dello Stato alla Sicilia. E che il disavanzo attuale dell’Isola è leggermente superiore proprio a quella cifra.
“Alla Regione – si legge nella delibera di giunta – viene impedito di attuare le proprie funzioni amministrative in violazione dei principi di ragionevolezza e buon andamento della Pubblica amministrazione”. Inoltre il decreto “si presta – prosegue l’atto di giunta – anche a rilievi di incostituzionalità individuati nella lesione dei principi di certezza delle entrate, di affidamento e di corrispondnza tra risorse e funzioni pubbliche”. Ma non solo. Secondo il governo regionale “lo Stato ha disatteso tutte le indicazioni fornite dalla giurisprudenza della Corte in ordine alla necessità di intese quando si tratti di relazioni finanziarie fra Stato e Regioni ad Autonomia speciale”.
Quel decreto, secondo Crocetta, violerebbe sia alcuni articoli dello Statuto siciliano (il 20, il 36 e il 46) sia alcuni della Costituzione italiana. Una decisione, quella del governo regionale, che apparentemente consente alla Sicilia di “battere i pugni” sul tavolo romano. E sarebbe così, in effetti, se solo nel luglio del 2014 Crocetta non avesse firmato un accordo col quale si impegnava a rinunciare agli effetti positive di quelle sentenze. Insomma, il ricorso c’è. Ma anche se la Sicilia lo dovesse vincere, le entrate resterebbero a Roma. A meno che il contenzioso per assicurare all’Isola il miliardo e mezzo per chiudere il bilancio non dovesse concludersi con una fumata nera.