Un cancro sociale: il mobbing - Live Sicilia

Un cancro sociale: il mobbing

Definire le modalità vessatorie come mobbing, inoltre, implica alcune precise caratteristiche, poiché non tutti i comportamenti illegali, o spinti ai limiti della legalità, posti in atto da un datore di lavoro costituiscono mobbing.

Si fa un gran parlare, spesso in modo improprio, di situazioni che hanno come denominatore comune una ferita che acuisce il male di vivere: il disagio sul posto di lavoro. E, in tempi nei quali avere un lavoro è considerato una fortuna, esprimere tale malessere è difficile. Avviene in sordina; si rivela solo se l’esistenza diventa davvero insostenibile. Definire le modalità vessatorie come mobbing, inoltre, implica alcune precise caratteristiche, poiché non tutti i comportamenti illegali, o spinti ai limiti della legalità, posti in atto da un datore di lavoro costituiscono mobbing. Il rapporto di lavoro è un contratto. Come tale può essere adempiuto male, o non essere adempiuto del tutto; ed è un contratto particolare, che riguarda una persona sotto molteplici aspetti, non solo di natura economica. La legge impone al datore di lavoro il rispetto dell’integrità fisica, ma anche morale del lavoratore, vietando una serie di atteggiamenti lesivi praticati nell’ambito lavorativo, ove si verificano reati di vario genere, come stalking, molestie sessuali, minacce, violenza privata, estorsione, maltrattamento. Il mobbing (o ‘bossing’ quando è attuato dal superiore nei confronti del subordinato) è, però, qualcosa di diverso. Prescinde sottilmente dal ricorrere di fattispecie di tipo penale; piuttosto, si configura come un danno riferibile a reiterate e volontarie condotte persecutorie. In sintesi, è l’abuso prolungato della posizione di autorità.

Il lemma deriva dall’inglese to mob, che significa assalire, e definisce la condotta del datore di lavoro (ma spesso, purtroppo, anche di altri soggetti che egli manovra da burattinaio promettendo benefici e avanzamenti, secondo la feroce legge ‘mors tua, vita mea’, per fare terra bruciata attorno alla vittima) manifestata con una serie di atti che hanno lo scopo di perseguitare in modo costante un dipendente per emarginarlo ledendone la dignità umana e professionale. In Italia, una delle tipologie di mobbing più frequente riguarda le donne e, in particolare, le neo-mamme. Un’inchiesta condotta per L’Espresso da Arianna Giunti qualche mese fa, rivela come quest’Italia di mammoni (o finti tali) non sia più un Paese per mamme. Le lavoratrici divenute madri, considerate dalle aziende meno produttive, sono frequentemente oggetto di prevaricazioni e discriminazioni. Lo confermano i sindacati e le associazioni di categoria, che quotidianamente ricevono segnalazioni in tal senso e raccolgono storie di donne vittime di mobbing al rientro dalla maternità o addirittura mentre è in corso la gravidanza. Le aziende continuano a demansionare, isolare e vessare psicologicamente le lavoratrici fino a provocarne le dimissioni. E neppure una legge severa come la 151/2001 riesce ad arginare abusi e ingiustizie di genere.

Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Nazionale Mobbing, in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati, in cinque anni, del trenta per cento. Negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi ottocentomila donne; 350.000 sono state discriminate per la maternità o per aver avanzato richieste atte a conciliare il lavoro con la vita familiare. Quattro madri su dieci vengono costrette a dare le dimissioni per effetto del ‘mobbing post partum’. E, anche se le situazioni più grave si registrano nelle metropoli, l’incidenza è maggiore nelle regioni del Sud (21%). Da Milano a Palermo, tristi storie, senza alcun possibile lieto fine (perfino quando le lavoratrici si spingono fino ad avviare una causa al Tribunale del Lavoro di solito, stressate dalla guerra psicologica che subiscono, non la portano a termine o finiscono col dimettersi), punteggiano tutto il Paese. Emerge una realtà difficile: le donne con figli hanno un tasso di occupazione di 14 punti inferiore rispetto a quelle senza figli, e il 14% lascia il lavoro entro il primo anno di vita del bambino. Il Centro Donna della Camera del Lavoro conferma che spesso le donne, dopo la maternità, vengono emarginate o demansionate solo per aver osato domandare orari più compatibili con la loro nuova condizione, per aver legittimamente avanzato la richiesta dei permessi per allattamento o, semplicemente, perché durante la loro assenza il loro ruolo è stato affidato a qualcun altro. Il fenomeno discriminatorio è in crescita.

A Palermo, ove il 15 Novembre ha avuto luogo una giornata di sostegno alle lavoratrici madri il cui tema è stato ‘Allattamento in Giustizia. Cultura e salute tra riconoscimento ed oscuramento di un diritto’ organizzata dalle associazioni Arte di crescere, Cerchi di vita, Le Balate, vi sono state 416 denunce di mobbing negli ultimi tre anni. L’assenza sul territorio dell’Isola di strutture dedicate, l’alto costo dei nidi privati, la difficoltà di conciliare gli orari di ufficio coi primi mesi di vita di un figlio, creano dei veri drammi privati alle donne siciliane. La maternità continua a rimanere un ostacolo al lavoro e alla carriera. In buona sostanza, le aziende considerano la donna che diventa madre un problema. E poiché la legge implica che non si possa mandare via una dipendente in stato di gravidanza o appena rientrata dalla maternità, l’azienda, mediante una guerra subdola e logorante, attende che sia la lavoratrice stessa, psicologicamente provata, a chiedere le dimissioni. La maggior parte delle neo mamme vittime di mobbing preferisce arrendersi, pur di non continuare estenuanti -e impari- duelli psicologici. Anche perché dimostrare il mobbing non è semplice. Alla base del mobbing si deve ravvisare una condotta volutamente persecutoria; nonostante le nuove disposizioni di legge (DLGS 81/2008), se si individua il ricorrere di una condotta mobbizzante, bisogna anche verificare se abbia effettivamente dato luogo a un pregiudizio che giustifichi il ricorso al Tribunale.

La ricostruzione dei fatti deve essere sottoposta al parere dei periti medico legali che, se positivo, permette l’avvio dell’azione giudiziale. Le prove poi consentiranno di ricostruire le condotte vessatorie e la situazione di danno patita dal lavoratore. L’onere della prova, comunque, spetta al lavoratore, ed è difficile che un datore di lavoro sia così sprovveduto da lasciare traccia delle sue vessazioni. La partita è giocata sul piano psicologico; gli psichiatri, difatti, considerano la persecuzione morale che interessa le dinamiche dell’ambiente di lavoro una forma di tortura. Emarginazione, assegnazione di compiti dequalificanti, compromissione dell’immagine sociale, diffusione di maldicenze, critiche continue, accuse ingiuste, sono tutte circostanze che contribuiscono a creare quello che lo psicologo tedesco Heinz Leymann ha definito ‘terrorismo psicologico sul luogo di lavoro’. Caratterizzato dalla ripetizione protratta nel tempo, il mobbing descrive una pressione esercitata con lo scopo di isolare e costringere al ritiro una persona ritenuta scomoda, condotta con intenzionalità negativa e senza possibilità di difesa; inizia con attacchi apparentemente insignificanti, e prosegue con una escalation di aggressioni sempre più insistenti che colgono impreparata la vittima, la quale, ignorando inizialmente la causa dell’ostilità, spesso si colpevolizza.

Eruzioni cutanee, ulcere, problemi cardiaci, ansia, depressione, disturbi del sonno, cattiva alimentazione, alcolismo, tabagismo, uso improprio di farmaci, aggressività, disadattamento sociale: i sintomi del mobbizzato arrivano fino a manifestazioni paranoiche e disturbi della personalità. Talora, fino al suicidio. Il romanzo tragico e anacronistico del quale la vittime di mobbing sono protagoniste è stato scritto da Fernando Cecchini, responsabile dello sportello d’ascolto Disagio Lavorativo e Mobbing della Cisl Roma e Lazio. L’autore di ‘Come il mobbing cambia la vita’ (FerrariSinibaldi, Milano 2012), ha altresì redatto una relazione contenente dati nazionali, aggiornati al 2015, rivelando che, sebbene non portino poi ad azioni legali, le segnalazioni sono moltissime. L’Istituto Nazionale Assistenza Sociale conferma il trend rinunciatario: nonostante gli innumerevoli casi segnalati ai loro sportelli, poche persone hanno sporto denuncia. Sebbene, secondo le stime, oltre un milione di lavoratori ne sia vittima, l’Italia è il Paese in Europa con la percentuale più bassa di denunce per mobbing. Nella sopportazione delle prevaricazioni ha un forte peso la devastante crisi economica. C’è chi proprio non può permettersi di rinunciare a uno stipendio, per quanto modesto; deve sopravvivere, anche se male. Mobbing e recessione viaggiano di pari passo; è un circolo vizioso: da una parte, la crisi genera precarietà e incertezze per il futuro lavorativo e costituisce terreno fertile per il mobbing, dall’altra induce i lavoratori a tenersi stretto un lavoro precario, mal retribuito, non qualificato, subendo persino molestie.

Questa situazione è cristallizzata in un altro squallido primato italiano, il costo più basso dei licenziamenti a livello mondiale. In tempo di crisi e di flessibilità, anche in Sicilia tante sono le vittime di mobbing. Come afferma la psicologa del lavoro Adriana Aronadio, responsabile del Centro Ascolto Mobbing e Stalking di Palermo e coordinatrice regionale degli sportelli presenti sul territorio siciliano, la legge concede alle aziende la libertà di demansionare un dipendente. Lo stress patologico determinato dall’eccesso di pressioni sul lavoro è aumentato, così come le depressioni e i tentativi di suicidio, in particolare tra le persone mature. Per tutelare i lavoratori, la UIL Sicilia ha istituito lo sportello di primo ascolto presso i suoi centri sparsi sul territorio regionale, per prevenire e contrastare diverse forme di violenza, valutare la problematica del mobbing e dello stalking, elaborare le strategie di possibile intervento ed erogare una consulenza specialistica; punta ad estendere in tutta l’Isola il servizio offerto, avvalendosi della collaborazione di professionisti qualificati.

Occorre certo considerare che le realtà territoriali siciliane sono variegate e tra loro diverse. Per fare un esempio, nella provincia di Caltanissetta, ove, come in genere nell’entroterra siciliano, continua a proliferare il lavoro nero, sono state segnalate pesanti discriminazioni verso i lavoratori che hanno chiesto aiuto al centro; le ritorsioni spesso non vengono denunciate; negli ambienti di lavoro dominano l’insicurezza e l’instabilità. La cultura (e il coraggio) della denuncia, che sostituisca la paura di continuare ad essere perseguitati nell’amministrazione di appartenenza, o addirittura di non trovare più un’occupazione, tarda a farsi strada. Comprensibilmente, se si pensa che il rimedio non funziona senza una trasformazione sociale, necessaria se si consideri che la patologia da disadattamento lavorativo è una piaga che penalizza non solo il singolo, ma, in modo diverso, l’intero mercato del lavoro. Con il mobbing si colpiscono gli esuberi aziendali, si mettono alla prova i neoassunti, ci si sbarazza delle persone ritenute scomode, ma, nello stesso tempo, il mobbing aumenta il tasso di disoccupazione, rende improduttiva la vittima estromettendola dal mondo del lavoro e permette che il peso economico relativo gravi sull’intera comunità: un lavoratore costretto alla pensione a soli 40 anni costa alla società circa seicentomila euro in più di uno pensionato all’età prevista dalla legge. In un Paese nel quale si fa fatica non solo a ridere, ma persino a ironizzare, si è creato un esercito di ‘lavoratori terminali’. Una nuova forma di cancro colpisce indistintamente uomini e donne, persone prima che lavoratori.

Un acuto uomo politico siciliano, uno di quelli del tempo che fu, metteva in guardia, con le sue parole e i suoi scritti, dall’appiattirsi considerando ogni singolo colpo che un lavoratore subisca come una vicenda estranea e marginale, e ogni nuova strategia per fiaccare la forza lavoro come un male endemico della nostra Sicilia. Oggi più che mai sembra necessario che la lezione di Pancrazio De Pasquale venga recuperata da ogni forza in campo, affinché più nessuno consideri l’ingiustizia sociale un dato strutturale della società. O, semplicemente, applicare la regola aurea della reciprocità, enunciata dal rabbi Hillel e confermata al positivo da Cristo. Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.

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