Viaggio (quasi) godurioso | tra i sette peccati capitali - Live Sicilia

Viaggio (quasi) godurioso | tra i sette peccati capitali

Uno solo riesce a sopravvivere, gli altri sei meritano il nostro perdono.

Vizi & Virtù sul Foglio
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Ci siamo persi alcuni dei sette peccati capitali e adesso siamo smarriti, vaghiamo fra i gironi danteschi senza avere la capacità di riconoscerci. Abbiamo perduto il male, va da sé che non riusciremo facilmente a trovare il bene.

La nostra cultura cristiana che, per quanto modulata da una ostentata laicità sempre cristianissima resta, ci ha indottrinato alla cultura del peccato.

Sette sono i vizi capitali redatti per la prima volta nel VI secolo da Papa Gregorio I e mai rimodernati, mai limati o cambiati nel tempo. Vero è, direte voi, i peccati quelli sono e quelli restano ma è altrettanto vero che il mondo in questi sedici secoli è cambiato e probabilmente è cambiata anche la cultura del peccato, del timor di Dio e la priorità “capitale” che a questi peccati bisogna attribuire.

Certo, il lettore attento mi farà notare che per “capitale” si intende appunto la discendenza inevitabile di una infinita quantità di altri peccati che i sette in elenco si portano dietro ma io, con tono provocatorio e forse anche un po’ beffardo, vorrei sottolineare quanto alcuni di questi, sei in particolare, abbiano perso di credibilità, se non d’importanza addirittura, e mettere piuttosto in risalto quanto uno, e solo uno, abbia tristemente trionfato sugli altri.

Cominciamo dunque questo viaggio che sa quasi di visione ultraterrena dantesca e scandagliamo uno ad uno i vizi, il cui nome, si sa, predispone già al sorriso.

La superbia. Vizio odioso di chi si erge a conoscitore della verità, di chi ostenta intelligenza (molto spesso solo presunta) e si ritiene superiore a tutto e tutti. Odioso appunto ma necessario talvolta sia per evidenziare la magnificenza del modesto (il quale non commette peccato ma a volte è più odioso del superbo) sia per accrescere ed esaltare le potenzialità che talvolta un carattere schivo e modesto (appunto) cova dentro e non fa esplodere.

Lungi da me esaltare la superbia ma ritenerla sporadicamente e con misura un elemento di forza forse sì, un elemento necessario direi. In un mondo che punta alla globalizzazione delle idee e alla massificazione dei talenti che ben venga qualche superbo, spocchioso, arrogantello o forse semplicemente un insicuro travestito da tutto questo.

Il Cristianesimo lo ha ritenuto il peggiore dei sette vizi capitali, poiché fu quello più riferibile al peccato di Lucifero che sfrontatamente si volle ergere al pari di Dio, eppure bisogna ammetterne l’indiscusso merito. Senza la superbia Lucifero non avrebbe sfidato Dio e senza la cacciata dal Paradiso, con la conseguente contrapposizione del bene e del male, oggi forse trastulleremmo la nostra esistenza interamente nel secondo vizio capitale.

L’accidia. Noia, noia, noia maledetta noia. Questo male esistenziale consiste nella assoluta negligenza e indifferenza rispetto alla vita. La si potrebbe considerare una patologia condivisa, la patologia della normalità. È sostanzialmente un male moderno, ma di ogni epoca moderna e quindi di fatto eterno. Un vizio che attanaglia soprattutto i giovani ma non lascia scampo a vecchi o bambini. Per tanto si potrebbe affermare che uno dei principali obiettivi, oggi, è proprio quello di fuggire la noia.

Eppure non è la noia ad attanagliare la nostra esistenza bensì l’idea stessa che le nostre radici culturali, religiose e sociali ci hanno inculcato della noia. Il timore costante di rifuggirla ci ha costretti a sentirla parte integrante della nostra vita. Se poi aggiungiamo che nel filosofeggiare da ultimo anno liceale ci si mette anche quel coacervo di ottimismo di Schopenhauer secondo cui “la vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia” allora capiamo quanto sfuggire al concetto di noia sia più difficile di quanto non lo sia viverla nella sua purezza.

Eppure la vita non è così noiosa. La vita è molto di più; può arrivare ad essere persino bellissima. Se si agisce, se si pensa agli altri e non ci si crogiola nella letale ignavia dell’accidia. Ci salveremo dalla noia. Del resto qualunque siano le torture dell’inferno, immagino che la noia del paradiso basterà a compensare tutta quella vissuta in terra.

Segue l’ira. “Senso smisurato della giustizia” almeno così viene definita nell’accezione più antica. L’ira come vizio, o come pregio in talune circostanze, si manifesta nel desiderio sfrenato di vendicare un torto ricevuto. Deplorevole indubbiamente per chi, figlio della cultura cristiana, ha visto nel “porgi l’altra guancia” il fondamento di una dottrina religiosa. Eppure risulta uno dei sentimenti più istintivi e primordiali.

Il senso di giustizia, sebbene si trasformi con l’ira in un eccesso condannabile, risulta purtroppo perduto. La nostra società ne è dimentica al punto tale da lasciare che la sopraffazione sia diventata abitudine e l’accettazione di questa, prassi. Se avessimo mostrato di essere più iracondi forse non staremmo qui a piangere per l’ira altrui. Piuttosto che cassarlo tra i peccati capitali poniamolo tra i vizi perduti, nella speranza, cum grano salis, di ritrovare qualche nostalgico iracondo.

La gola. Vizio gradevole. Peccato ridicolo. Il ventunesimo secolo passerà alla storia come il secolo dei vegani, dei fruttariani, dei crudisti, dei vegetariani e, i pochi che restano sono salutisti, sportivi e perennemente a dieta. Chi mangia più per il piacere di mangiare? Dove sono finiti gli ingordi, i goduriosi del cibo, coloro che trovavano nel piacere del palato un’assonanza melodiosa con il piacere fisico? Spariti. Disciolti al sole del mito di un corpo statuario e sano. Mangiano da Dio e fumano come i turchi. Il loro peccato evidentemente sta qui e non più nel cibo che resta solo un ricordo lontano. Salviamo i golosi quindi. Salviamoli dal peccato della dimenticanza e riportiamoli al piacere del vizio.

L’avarizia: è il più squallido fra i peccati capitali ma non il più reietto. Costringe sostanzialmente chi ne è schiavo ad una vita di stenti circondata da ricchezze. È una contrapposizione dolorosissima fra la bramosia di accumulare denari e l’impossibilità a separarsene. L’avaro è costretto a diventare con il tempo schiavo di se stesso e del suo apparente benessere perdendo la libertà in nome di un nuovo Dio da idolatrare: il Dio denaro. Riprovevoli e mostruosi non meriterebbero il perdono ma dopo aver vissuto una vita così mortificante li salverei dalle fiamme costringendoli giornalmente a rimpinguare, attraverso offertori trimalchionici, la penuria dei golosi in terra.

La lussuria. Brilla tra i vizi, si magnifica nei peccati. Neanche il sommo poeta riuscì ad essere intransigente con i lussuriosi. A loro regalò uno dei più belli affreschi di tutta la Divina Commedia definendoli “i peccator carnali che la ragion sottomettono al talento” laddove per “talento” si intende l’istinto. In fondo, però, letta in una visione forzata e sicuramente più moderna, la lussuria la si potrebbe definire quasi un talento del nostro tempo, il talento di chi sa amare, di chi vede nella inevitabile consustanzazione tra il piacere intellettuale e quello fisico, l’essenza del piacere stesso.

Dante, così come Tolstoj qualche secolo più in là, non riesce a provare un sentimento di condanna nei confronti dei lussuriosi: né il Sommo con Paolo e Francesca, né Tolstoj con Anna Karenina, altra personificazione adulterina della lussuria. La giustizia che entrambi applicano, per volere di Dio ma attraverso la loro penna, è una giustizia raccapricciante alla quale entrambi rifuggono. Dante lo fa attraverso la Pietà, una pietà che accompagna tutto il canto raggiungendo l’apice del dolore nella insopportabile visione di una quasi ingiustizia “di pietade, io venni men così com’io morisse”. In Tolstoj, invece, moralista, cupo e spietato, vi è la lotta lungo tutto il suo romanzo per non innamorarsi di quell’Anna bella, intelligente e appassionata che egli stesso va creando.

Del resto cos’è la lussuria se non una passione insana, una palude in cui la sete dell’anima comincia ben presto a vagare senza né meta né speranza? Non esiste quindi amore che non abbia la componente sessuale e non esiste sessualità che non abbia, anche nella sua forma più disincantata e distaccata, un certo coinvolgimento affettivo. Allora, quanto è davvero condannabile la lussuria? E quanto questo, vizio o peccato che dir si voglia, possa essere nomenclato insieme all’accidia, all’avarizia, o ancor peggio all’invidia?

Ritorniamo alle sacre scritture: “A Cesare quel che è di Cesare. A Dio quel che è di Dio”. Ed infine concludiamo questo forzato gioco del perdono ad oltranza parlando dell’ultimo peccato; l’unico che non meriterebbe neanche il gioco tanto risulta insulso e ripugnante.

L’invidia. Si tratta di un sentimento devastante che cela un profondo senso di impotenza. Ci si distrugge per via della felicità altrui auspicando disperatamente che questa possa finire al fine di appagare il proprio Io mortificato dall’indegnità di questo peccato. L’invidia nasce da una miseria interiore che poco ha a che fare con la miseria comunemente intesa. Non è invidioso chi non ha di chi ha. La condizione economica, sociale, intellettuale e religiosa non condiziona l’essere invidioso dal non esserlo. Anzi, molto spesso è colui che apparentemente vive una condizione di benessere sotto molti aspetti che alimenta furiosamente la belva dell’invidia.

Rispetto ai sei peccati di cui abbiamo sornionamente discusso, questo si colloca su un piano diverso. Non comporta solo un disagio oggettivo e autodistruttivo per chi rimane invischiato nelle trame fittissime della sua perversione ma si impossessa soprattutto di queste per generare dolore, per diffondere la serpe del dubbio, della cattiveria e minare alla felicità degli altri . È un peccato triste. Senza il ben che minimo sprazzo di intelligenza. Un peccato destinato agli stupidi. Ci piacerebbe pensare, mossi dal profondissimo senso di giustizia di cui sopra, che da qualche parte, un Dio compiacente possa punire gli invidiosi. Eppure, se così fosse, il Dio rischierebbe di restare coinvolto a sua volta per aver peccato di ira, per aver voluto applicare rigorosamente la giustizia.

Mi sa che dovremo abituarci all’idea di un indulto generale. Del resto, noi seguaci di De André, sappiamo bene che “l’inferno esiste solo per chi ne ha paura” e tanto basta a liberarci dal rischio di incontri spiacevoli anche nell’aldilà. Via libera anche agli invidiosi dunque, o a chiunque per un attimo della propria vita abbia la forza di guardarsi indietro e capire, sinceramente, di aver sbagliato.

E a noi peccatori che ci abbandoniamo al peccato nella sola speranza di sentire scorrere lungo la schiena il brivido caldo del perdono, resta solo un sogno: nessuno ci tocchi il desiderio di desiderare, il piacere di piacere e la speranza di sperare.

“Il libro della vita è giunto alla pagina più preziosa di ogni cosa sacra”.
Dottor Zivago.


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