Vent'anni senza Serafino Famà | Ucciso dalla mafia in una città ferita - Live Sicilia

Vent’anni senza Serafino Famà | Ucciso dalla mafia in una città ferita

Un uomo fermamente convinto che la legalità si conquistasse nel quotidiano, un avvocato assassinato dalla malavita per il suo rigore morale e intellettuale. Ma prima di ogni cosa, Famà era “una persona piena di vita" e un padre premuroso. Il ricordo della figlia Flavia. Il sindaco Bianco: "Esempio di correttezza" Il programma delle commemorazioni

L'anniversario
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Famà e la piccola Flavia

CATANIA. Vent’anni senza Serafino Famà. “Non era un avvocato di corridoio, era un legale da campo aperto di battaglia e in questo suo atteggiamento non conosceva riverenze, né sottomissioni nei confronti di chicchessia”. Così il magistrato Sebastiano Ardita nel libro “Catania Bene” tratteggia la figura di Serafino Famà. Un uomo fermamente convinto che la legalità si conquistasse nel quotidiano, un avvocato assassinato dalla mafia per il suo rigore morale e intellettuale. Ma prima di ogni cosa, Famà era “una persona piena di vita “e un padre premuroso con i figli Flavia e Fabrizio. “Mio padre era una persona molto presente compatibilmente con il suo lavoro, non ci ha mai fatto mancare attenzioni; non parlo soltanto di quando a casa ci aiutava a ripetere e studiare ma anche alle passeggiate domenicali in bici con me e le mie amiche”, ricorda Flavia. Un uomo che amava portare i ragazzi in giro, e che “aveva un legame fortissimo con la terra”. “Avevamo una casa in campagna dove andavamo la domenica a raccogliere i frutti dagli alberi”, rievoca la figlia. Un uomo che “raccontava barzellette, amante della compagnia e giocava a calcio tutte le settimane: ricordo una persona piena di vita”. Sono spaccati di “vita normale e quotidiana” che ci restituiscono la figura dell’uomo Serafino Famà, persona colta e appassionata musica italiana che “amava cantare testi si Celentano e De Andrè” e divorare “libri sull’arte, la storia e la filosofia”. “Era affascinate parlare con lui”, ricorda Flavia. E il suo pensiero corre alle insolite favole che il padre le raccontava da bambina: “al posto delle fiabe mi leggeva racconti letterari come Guerrin Meschino al posto di Biancaneve”.

“Per noi era un padre e una persona normale”, dice Flavia che scoprirà solo più tardi e in tragiche circostanze la centralità del lavoro di avvocato nella vita del padre. Per l’esattezza dal novembre del 1995 in poi. L’assassinio di Serafino Famà segna inevitabilmente uno spartiacque, non soltanto tra l’adolescenza e l’età adulta nella vita dei suoi figli ma in quella di una città che prende coscienza. “Da quel giorno è cambiato tutto: non solo c’è stata la percezione che non era vero quello che si diceva negli anni novanta cioè che la mafia è solo a Palermo e che si ammazzano tra loro”, racconta Flavia. “Da figlia poi è cambiato tutto, tu a quell’età pensi che crescerai con i tuoi genitori accanto per il diploma o la laurea, che nella quotidianità riceverai consigli su ogni cosa e invece non è stato più così perché qualcuno ha deciso che a tredici anni dovevo scontrarmi con una realtà del genere, cose con le quali fare i conti tutti i giorni, un’assenza fisica, ma una presenza emotiva che senti sempre accanto a te”.

Ma non c’è soltanto il dolore privato, in Flavia nasce anche un’attenzione all’aspetto pubblico, a partire dalle reazioni di un’intera città colpita al cuore. “In quei giorni c’è stata una reazione fortissima: migliaia di persone in chiesa, l’ingresso al cimitero di Misterbianco le persone hanno abbassato le saracinesche e si sono messe con la mano sul cuore”. “Un mese dopo il sindaco Bianco ha posto una targa sul luogo del delitto con scritto: qui è stato barbaramente ucciso per mano mafiosa l’avvocato Serafino Famà. Non era scontato, fu una presa di posizione molto forte”. Poi, come spesso accade, il ricordo scivola verso l’oblio. “Poi sembrò una cosa dimentica; qualche anno fa andai al liceo Cutelli, dove studiò mio padre, per invitare la scuola a un’iniziativa e mettere una locandina, ma non ho sentito una reale partecipazione”. “Negli ultimi anni, invece, dopo i murales di Addio Pizzo, e grazie all’avvocatura che non ha mai smesso di ricordarlo, c’è una partecipazione più forte della gente comune, chi ti ferma per strada e ti dice che lo ha conosciuto non per come è stato ucciso ma per come ha vissuto”.

Ed è proprio nella vita dell’avvocato Famà che si rintracciano l’onestà, la caparbietà e il coraggio dell’uomo pubblico, il ragazzo “che aiutava la famiglia al mattino e studiava la notte per coronare il sogno di diventare avvocato”. “Mio padre ci ha insegnato a non avere paura e a stare dalla parte dei più deboli”. E l’ha insegnato a un’intera città con le lotte “durissime per difendere la toga” condotte negli anni. Una battaglia, quella in difesa dell’avvocatura, che Flavia ha sposato realizzando anche un documentario (Tra due fuochi), dove racconta non soltanto la vita del padre, ma spiega le difficoltà di un’intera categoria spesso vessata. “L’avvocato penalista vive tra due fuochi cioè da una parte è visto troppo vicino ai magistrati per fare gli interessi del cliente, dall’altro quasi complice della persona che difende”. Quando, invece, “svolge un ruolo fondamentale: garantisce la difesa di tutti i cittadini.”

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