Lì, dove ti aspetti il dolore, c’è una casa accogliente. C’è un vecchietto in vestaglia che apre una porta per darti il benvenuto. Non tutti i sorrisi, oltre le centomila maniglie che la vita ti invita ad aprire, sono tanto ospitali. Lì dove ti aspetti la morte, ci sono quadri, persone e colori che raccontano la vita.
L’Hospice dell’ospedale Civico di Palermo è un luogo di confine. Quassù, al secondo piano di una palazzina, una squadra di uomini di buona volontà avvolge e protegge malati oncologici in fase terminale. Ci sono terapie palliative e carezze per i corpi straziati da una lunga confidenza col male. Ci sono parole e affetti per la solitudine di coloro che affrontano l’ultima curva. Oltrepassando il limite fisico e psicologico del reparto, ti rendi conto di una benigna e apparente contraddizione. Qui non si viene per morire, qui si vive. Per vivere.
Il responsabile della struttura è Giorgio Trizzino, una lontana somiglianza con l’attore Tony Servillo. Un medico che non ha scisso sapienza e sensibilità. Lo ascolti parlare, capisci che non saprebbe usare frasi di circostanza. Ogni segmento del suo discorso è il passaggio di un cammino che deve essere stato laborioso. La medicina, talvolta, supera il problema del coinvolgimento, separando la cura dall’amore, il sintomo dalla relazione. Giorgio Trizzino non è così. Accompagna i suoi pazienti, riesce a lasciarli andare al momento giusto. “Questa – confessa – è l’essenza della mia professionalità”.
Eluana Englaro, la ragazza ariosa che fu, ora corpo di cui tanto si discute, avrebbe potuto condividere i suoi giorni di attesa qui, al secondo piano della palazzina. “Il suo medico curante che conosco benissimo – spiega Trizzino – ci aveva chiesto la disponibilità. Alla fine, hanno preferito una soluzione logistica più comoda e il problema non si è posto”. Pure questa è terra inesplorata, intreccio di nodi etici, scientifici e personali, come la cameretta di Eluana nella clinica di Udine. Il dottor Tony Servillo ha spalancato il reparto al cronista, affinché una maggiore quantità di luce entri nelle stanze già bene illuminate e confortevoli dei quattordici degenti. “Dobbiamo guardare in faccia la zona estrema, per capire, per aiutare gli altri a comprendere che cos’è, al netto dell’ideologia e delle prese di posizione”.
Cos’è dunque l’Hospice? Fisicamente è un albergo con ogni sorta di comodità: dalla tv satellitare, al pc che permette collegamenti a casa con le famiglie. La tonalità delle stanze è calda, riposante. All’inizio del corridoio c’è un quadernone con una penna. Chi passa macchia il foglio con un ringraziamento. C’è spazio per altro. Una donna ha scritto: “Mamma, perdonami se ti abbiamo portata qua, è per il tuo bene”. Ci sono lettere dalla grafia incerta che salutano chi è andato via. Dai contorni sembrano sfuggenti, ali di piccolo cabotaggio. Ci sono undici infermieri, più volontari, assistenti spirituali e psicologi di supporto. Non mancano i cosiddetti “assistenti filosofici” e forniscono una qualità nuova di sostegno. I filosofi sanno dipanare razionalmente la matassa delle cose ultime, per offrire il filo di un gomitolo ingarbugliato. Sono molto utili qui, perché le domande sulle cose ultime vengono continuamente iscritte nell’agenda quotidiana. Il dottore racconta: “Forniamo cure palliative ad altissimo livello, ovvio. Però il nostro compito è soprattutto quello di accompagnare le persone con la massima naturalezza possibile. La relazione e il contatto sono elementi fondamentali”. E vengono testimoniati dall’attività sociale del club dell’Hospice. C’è la torta pomeridiana, c’è la gelateria, c’è la terrazza per l’estate con i raduni, c’è il Natale da passare insieme con i familiari dei malati e del personale sanitario. “All’inizio, i miei figli erano un po’ titubanti – spiega il dottore Trizzino -. Oggi mi ringraziano”. E’ l’imbarazzo comprensibile della linea di confine, con i suoi ostacoli e le sue spine. L’abitudine alla morte può sfociare nel cinismo professionale. Qui no: “L’abitudine l’abbiamo bandita, è il modo migliore per continuare a svolgere il nostro servizio”. Il vero scandalo è altrove. “Nelle rianimazioni, ci sono pazienti in stato vegetativo, perfino bambini, abbandonati per anni e tenuti in vita col minimo indispensabile, senza amore, senza parenti. Corpi che si disfanno in un letto, a poco a poco. Di questo nessuno si occupa. In Sicilia ci sono poche come la nostra. Si poteva fare di più, i soldi c’erano, purtroppo c’è l’inerzia della politica…”.
Su Eluana, il giudizio è netto: “La ragazza è morta e sarebbe ora di lasciarla andare in pace. Abbiamo letto espressioni di fuoco, francamente eccessive”. Come assassinio, abominio, boia. Maledizioni e anatemi che hanno increspato amaramente l’onda dell’emozione popolare. Invece, ogni linea di confine dovrebbe avere questi colori e questi sorrisi. Dovrebbe esserci ovunque un libro per il cuore, sulla porta. Il freddo è fuori. Qui c’è un’opera in tufo, il regalo di un ragazzo di trent’anni che non voleva morire. Era un atleta, un mago del surf. La pietra della scultura è liscia, come un mare calmo. C’è una vela poggiata sulla risacca. Ci sono i gabbiani. E tutto il resto è cielo.
Il secondo pezzo dello speciale è ancora più antico. Ai tempi di Eluana Englaro pubblicammo un reportage sull'Hospice di Palermo. Crediamo sia utile riproporlo oggi come esempio di ottima sanità.
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