Viaggio nella scuola occupata | "Non vogliamo cambiare" - Live Sicilia

Viaggio nella scuola occupata | “Non vogliamo cambiare”

La scuola protesta. Si occupa, si organizzano assemblee. Siamo andati a conoscere da vicino gli studenti in trincea. Per vedere chi sono.

PALERMO- “Non voglio cambiare. Voglio restare così come sono”. Il ragazzo del Cannizzaro occupato mi guarda come un turco guarderebbe un eschimese di passaggio nel suo salotto. Gli ho appena domandato: ma siamo sicuri che da grande non diventerai come quelli che critichi? E lui ha tirato fuori lo spadino. Si è insaccato nella sua anima verde smeraldo. Ha mosso le ali, prima di lanciare il suo grido da Peter Pan. Non desidera cambiare. Non intende diventare come me che gli porgo quesiti da taccuino, da giornalista quarantenne che ha scelto di immergersi con lo scafandro di vaghi ricordi nel mare grande della protesta giovanile. Quarantun anni e molti di meno. In mezzo una trincea, uno sprofondo, senza l’ausilio di un esile ponticello di corda per potersi parlare a metà strada. Eppure ci prova il liceale. Tenta di farsi capire, spalancando due occhi da ricercatore di emozioni. E’ uno sfarfallio di mani, di occhiate e di concetti. E io so che ero così, come lui, assetato dell’attimo. E mi chiedo perché non sono più così. Ma nel mio taccuino la risposta non c’è.

Si sbaglia a pensare che sia la solita solfa. Che l’occupazione delle scuole segua il rito della vacanza anticipata, finché viene Natale. La posta è più alta. Sul quaderno della meglio gioventù inguaiata sta idealmente scolpita la ragione sociale della sommossa: se il passato è lontano e ti hanno fregato il futuro, a che serve il presente? Non mancano gli ingredienti vecchi mischiati al nuovo. Nell’atrio del liceo scientifico “Cannizzaro”, c’è il megafono gracchiante, il fumo delle sigarette della rivoluzione, le sciarpette in stile intellettuale anni ‘Settanta. Ci sono le commissioni politiche acquartierate sulle scale, su un banco verde fòrmica. Campeggia la lavagna col “programma” che, per una volta, non riguarda Foscolo. E c’è il cortesissimo e fermo servizio d’ordine, schierato a zona all’ingresso. “Scusi, lei chi è?”. “Sono un giornalista, sono qui per scrivere”. Faccine dubitative: sarà venuto per demolire o è un amico? Tale è l’immagine che diamo di noi che a nessuno – soprattutto ai ragazzi – passa mai per la testa la strana idea che un cronista sia fallibilmente onesto.

Esame passato senza problemi. E’ il momento dell’incontro con il capo, il rappresentante, il leader. “Chiamatelo”, squilla uno del servizio d’ordine. Sarà un nerboruto frequentatore di palestre col bicipite turgido e il tatuaggio del figlio cattivo dell’Uomo Tigre? Sarà un maleodorante alfiere della revolucion, della specie che conteggia il proprio grado di rottura col sistema in chilopuzzole? Sarà uno dei tanti: embè, si cioè… Sorpresa. Il Che Guevara cannizzarino è un ragazzo normale, con gli occhiali, la felpina e furtive occhiate da incallito leopardiano clandestino. “Prego, si accomodi”. Comincia: “Sì, stavolta è diverso. Non è nemmeno detto che l’occupazione continui. Se la maggioranza dei nostri compagni è orientata per seguire le lezioni, non lo ostacoleremo. Non vogliamo compiere un atto di violenza”. Narra di sé il presunto leopardiano, anzi leopardino: “Mi piacerebbe diventare psicologo. Però andrò via dall’Italia. Lavoro non ce n’è”. E se fosse qui il professore Monti se ne dorrebbe. Da uomo avveduto il Professore sa bene che in termini economici non c’è catastrofe più terribile di un giovanissimo italiano che progetta un domani distante dal suo paese, per mancanza di fiducia. Lo spread, al confronto, è una sciocchezza.

Le parole dell’altoparlante salgono piano al tetto con il fumo azzurrino delle cicche, accompagnate dal ronzio: “La parte menefreghista (crrrrr) della scuola (crrr)…”. Gli studenti sono immersi in una lieta immobilità. Sono padroni del gioco. Gli utensili dell’istruzione percepita minacciosamente – l’ardesia, i gessetti – si piegano con un sorriso nella festa che fissa il momento. Qui è per sempre Leopardi. E’ per sempre oggi, un giorno salvo e bellissimo. Ma già serpeggia la paura del risveglio alla fine del Paese dei balocchi, quando non basterà sfregare le dita sugli occhi per scacciare gli incubi. Ci sono Hobbit sognanti che chiacchierano di birra serale e palingenesi. E rimangono appesi alle quasi bambine, le loro compagne in viaggio dalla crisalide alla farfalla. L’assemblea finisce di schianto. Sciamano tutti dal portone. A ritroso verso il tavolo del servizio d’ordine che cura il deflusso con sapienza.

Non ci sarà nessun danno – racconta un simpatico Hobbit che si copre dal freddo con un cappuccio – saremo responsabili. Non è come nelle altre occasioni. Non ci interessa anticipare il Natale. Siamo preoccupati. Non ci va di perdere ore inutilmente”. E’ che la famosa crisi soffia dappertutto. “Io ho due fratelli con lauree importanti. Uno alla ‘Bocconi’. E sono a spasso”. Scorrono i fotogrammi di una storia di famiglia. Un patrimonio di sacrifici, di lacrime, di fatica, di soldi sotto il materasso per costruire goccia a goccia un avvenire ai figli. Tutto dissolto nell’era della Grecia non geografica che si scioglie, la Grecia nel piatto e nel cuore di ognuno di noi. “Cosa possiamo fare? Sensibilizzare. Chiedere alle persone che ci ascoltino. Che non ci sia più una Sicilia dove è necessaria la spinta per andare avanti. Sarebbe bello giocarsela tutti alla pari”.

Ecco Peter Pan. Sei sicuro che da grande non diventerai come quelli che critichi, che non ti piegherai alle raccomandazioni, che non darai il voto in cambio di una promessa? “Non voglio cambiare. Voglio restare così”. Un sussurro fortissimo. Un congedo. Ci separiamo. Peter Pan, incurante delle nuvole, spalanca le ali. Vola in un mondo che per i pirati troppo cresciuti è l’isola che non c’è. Io torno lentamente verso la macchina. A piedi, senza danze, sotto la pioggia.


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