Abbiamo deciso che il problema è lo Zen? Ci sto. Ma intendiamoci sul senso. Sono le persone che vivono là e che stiamo mettendo tutte dentro lo stesso calderone, o tutto quello che lo Stato non ha fatto nei confronti di quel quartiere?
È normale che nel 2025 ci sia ancora la quasi totalità di case non assegnate, famiglie che da anni provano a regolarizzare la propria posizione e a sentirsi cittadini a pieno titolo, e che non ci riescono perché la macchina burocratica e politica si è incartata su se stessa? È normale che per avere una carta d’identità allo Zen serva dieci volte lo sforzo che serve in altri quartieri? È normale che non ci siano spazi per i bambini, né luoghi di bellezza, e che chi vive lì si senta, giorno dopo giorno, scarto in un luogo trattato da scarto?
Non è un caso che lo Zen continui ad avere i tassi più alti di dispersione e abbandono scolastico della città. È davvero perché lì nascono tutti pigri e senza ambizioni? O perché non diamo a quei ragazzi la possibilità di coltivare i propri talenti, i propri desideri? Quando la criminalità diventa la normalità – anche solo perché il mondo ti guarda già come un criminale – quella profezia dello stigma si autoavvera. E se prendere un autobus per andare a scuola è già un’impresa, se ogni gesto quotidiano richiede dieci volte la fatica, allora siamo noi, come comunità, che chiediamo troppo a chi ha avuto troppo poco.
Lo Zen ha opportunità radicalmente diverse dal resto della città. Per questo serve ricostruire una straordinaria ordinarietà: fare in modo che vivere allo Zen significhi poter contare sugli stessi diritti, sulle stesse occasioni, sulle stesse chance. Chi pensa che lo Zen sia un problema dovrebbe imbracciare questa battaglia. Solo allora potremo dire che chi vive là ha scelto consapevolmente da che parte stare. Ma oggi non è così. Oggi il problema dello Zen è il modo in cui abbiamo costretto lo Zen a vivere.
Dentro questo ragionamento entra anche il tema del controllo del territorio in senso stretto. Perché ridurre tutto a “teppistelli di quartiere” o “feccia della società” è un modo per non vedere la luna e fissarsi sul dito. C’è un problema enorme di circolazione di armi nella nostra città.
Ed è lì che le forze dell’ordine, insieme alla politica, devono concentrarsi davvero: capire come e perché le armi circolano con tanta facilità, da dove arrivano, quali meccanismi consentono a un ventenne di procurarsi una pistola e usarla. E soprattutto: a chi serve tutto questo?
Dobbiamo pretendere una città libera dalle armi, ma per farlo serve indagare davvero le ragioni di ciò che accade, non rimuoverle. E forse, con prudenza ma con onestà, dobbiamo chiederci se tutto questo sia solo frutto di disagio giovanile o se dietro non ci siano disegni più vasti, interessi, strategie, complicità che vanno oltre i singoli episodi. Sono domande scomode, ma sono quelle che una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe porsi.
E da qui torniamo alla questione di fondo: Palermo, la sicurezza e la responsabilità della politica. C’è chi prova a dipingere una contrapposizione che non esiste: da una parte chi chiede più forze dell’ordine, dall’altra chi si batte per la prevenzione e l’inclusione. Ma la verità è che queste due dimensioni non possono funzionare l’una senza l’altra.
Di fronte ai livelli di violenza, insicurezza e disagio sociale e giovanile che Palermo sta attraversando, è evidente che serve un rafforzamento della presenza delle istituzioni, anche nella loro veste di forze dell’ordine. Ma questo non ha nulla a che vedere con la repressione. Il controllo del territorio è cosa diversa dalla repressione.
La presenza dello Stato – nelle scuole, negli spazi pubblici, nelle piazze e anche attraverso la polizia – è una forma di protezione, di garanzia di cittadinanza, di riconoscimento reciproco, se orientata alla cura e non al contenimento e basta.
Ma il controllo da solo non basta, così come non basta la sola prevenzione. Senza prevenzione, il controllo non serve a nulla; viceversa, i tempi lunghi con cui le azioni di prevenzione possono dare risultati sono incompatibili con ciò che stiamo già vivendo. Di certo, soprattutto se non iniziamo.
La sensazione più grave, oggi, è che nessuno si stia davvero interrogando come serve. La città paga non solo le conseguenze materiali del disagio sociale, ma anche la mancanza di una lettura collettiva, di una direzione. Palermo è in balia del nulla, ferma in una stasi, e nessuno prova a scardinare l’andazzo delle cose. E questa responsabilità non è delle istituzioni in senso astratto: è della politica. Perché è la politica che deve guidare le comunità, ispirarle, indicare una rotta, una direzione di cambiamento.
Oggi, invece, Palermo è una città dove è facile sentirsi soli, anche solo nel provare a capire come si possano cambiare le cose. Perché abbiamo un governo cittadino inconsistente, incapace di leggere la realtà, di mettersi accanto ai cittadini, di costruire un progetto condiviso.
E allora sì, serve più controllo del territorio. Ma serve anche una politica che torni a fare il proprio mestiere: capire, collegare, costruire futuro. Perché la sicurezza, la giustizia sociale, la prevenzione, l’educazione, non sono fronti contrapposti: sono la stessa battaglia.
Ma si, il problema è lo Zen. Il problema è che abbiamo deciso di non occuparcene. Di questo come di altro. Almeno fino alla prossima ondata di indignazione.
(Mariangela Di Gangi è consigliera comunale del Pd)

