Come si può dare torto a un paese in rivolta, con blocchi stradali, scioperi della fame e strade strapiene di manifestanti perché un ragazzo è morto dissanguato dopo un incidente stradale? Ognuno di quei cittadini ha diritto a essere curato al meglio, come se abitasse non nella Sicilia profonda ma nel centro di Milano. Eppure l’insurrezione di Mazzarino merita una riflessione più complessa. È davvero possibile tenere aperti tutti gli ospedali italiani con un pugno di posti letto? E siamo sicuri che questa sarebbe una scelta a favore della salute di quei cittadini? I fatti, per sommi capi, sono noti. Nella tarda serata di giovedì scorso, verso le 11, nel pieno centro di Mazzarino, in provincia di Caltanissetta, Filippo Li Gambi sbanda con la moto e cade rovinosamente.
Chiamano il 118, arriva un’ambulanza, lo portano al vicino ospedale del paese. Ha un’arteria tibiale ridotta in condizioni terribili, perde sangue copiosamente. Impossibile operarlo sul posto: la sala operatoria è chiusa da quattro mesi perché il piccolo nosocomio è destinato a essere ridotto al solo pronto soccorso e pochi servizi di base quindi il turn-over è bloccato e nessuno mai verrebbe per un contratto di poche settimane. Il ragazzo viene caricato di nuovo sull’ambulanza e portato al «Sant’Elia» di Caltanissetta, a 40 minuti di macchina. Troppo tardi. Muore. «Poteva essere salvato», ha detto il padre. «Poteva essere salvato», ha detto il paese. «Poteva essere salvato», ha detto il sindaco Vincenzo D’Asaro, che ha subito preso carta e penna e scritto a Giorgio Napolitano: «Il mio popolo non chiede favori politici, chiede il rispetto del territorio, chiede che sia rispettata la legalità e la democrazia. Chiede che sia garantito il diritto alla salute dei cittadini ».
Giusto. Vale per chi vive nelle linde valli altoatesine come sulle aspre montagne calabresi. Se qualcuno ha sbagliato, deve pagare. Deciderà la magistratura. La rivolta di Mazzarino, sindaco in testa, rischia però di confondere l’obiettivo. Certo, se quel ragazzo avesse sbandato con la moto a un chilometro dal Niguarda o dal policlinico di Palermo forse oggi sarebbe vivo: avere un ospedale a portata di mano, se ti saltano venti centimetri di arteria tibiale, aiuta. Ma chi voglia preoccuparsi sul serio della salute delle persone uscendo dalla reazione istintiva dettata dallo strazio, ha il dovere di chiedersi quello che dicevamo all’inizio: siamo sicuri che la scelta di tenere aperti ospedali minuscoli come quello di Mazzarino aiuti sul serio i cittadini? Dal punto di vista economico, non ci sono dubbi. La Sicilia, oppressa da un folle debito sanitario accumulato negli anni che il nuovo assessore alla sanità Massimo Russo sta cercando disperatamente di arginare, si ritrova oggi con 64 ospedali pubblici.
La sola provincia di Caltanissetta, con 273.000 abitanti pari a un quartiere di Roma, ne ha sei: il Sant’Elia nel capoluogo più uno a Gela, uno a Mussomeli, uno a Niscemi, uno a San Cataldo e l’ultimo, appunto, a Mazzarino. Tema: ha senso tenere aperto, con tutti i doppioni, per esempio, quello di San Cataldo che è a sette chilometri da Caltanissetta? Ha senso tenere aperto quello di Mazzarino, che ha 32 posti letto in chirurgia, ostetricia e medicina, più 10 di day-hospital e impiega, tra medici, infermieri e personale vario, 110 persone per un totale nel 2008 di 1.515 ricoveri, pari a tre al giorno? Quanto alla chirurgia: ha senso tenere aperto un reparto che per funzionare al meglio, stando ai parametri, dovrebbe avere almeno 6 medici e 12 infermieri più il personale d’appoggio (più 6 anestesisti per tenere aperta anche la sala operatoria) se i 12 posti letto sono stati occupati in un anno da 183 ricoveri, cioè uno ogni due giorni? La risposta, se vogliamo accantonare la demagogia, è no. Mille ospedali in miniatura con tutti i servizi come Mazzarino non può permetterseli l’Italia. E neanche la Svizzera o il sultanato del Brunei. Ma non si tratta solo di una questione economica: per la salute dei cittadini uno Stato serio deve essere sempre disposto ad andare in rosso. Il fatto è che, secondo tutti gli esperti del mondo, si tutela meglio la sanità collettiva offrendo dei servizi di base sparpagliati sul territorio e concentrando le risorse economiche, le attrezzature più sofisticate, le intelligenze più brillanti, i «bisturi» più capaci in alcuni centri di eccellenza. È lì che devono finire i casi più gravi.
«Anche se fosse stata aperta la sala operatoria non avremmo potuto fare niente», ha confidato al Giornale di Sicilia il primario di chirurgia di Mazzarino Antonio Tirrò, «avrei avuto bisogno di un chirurgo vascolare, di un ortopedico e di un rianimatore». Di più: al di là delle attrezzature, non c’è équipe chirurgica che possa essere davvero all’altezza di affrontare un’emergenza se si ritrova a gestire un tran tran quotidiano interrotto solo da interventi delicatissimi rari e sporadici. Molto meglio avere un 118 che funzioni davvero e sia in grado di andare a recuperare i malati (in elicottero, se serve) anche nelle località più lontane e nelle condizioni più difficili.
Ma questo è un altro dei tasti dolenti. Anzi, in Sicilia forse il più dolente di tutti. Dopo avere praticamente dimezzato le Asl, dimezzato i manager, tagliato drasticamente certi conti che gridavano vendetta e avviato la riduzione degli ospedali da 64 a una ventina (più i Pronto Soccorso e alcuni servizi di base che resteranno là dove sono i nosocomi attuali), l’assessore Russo, un ex magistrato che Lombardo ha imposto per dimostrare a Roma che voleva davvero voltare pagina, ha appena cominciato a metterci le mani. E quanto sia indispensabile mettercele lo dice un rapporto di due anni fa della «Joint Commission », il maggiore ente internazionale per la certificazione dei centri sanitari, dove si spiegava che il 118 siciliano costava allora 230 milioni di euro contro i 90 dell’analogo servizio in Piemonte che forniva prestazioni infinitamente migliori.
Colpa, certo, del fatto che nelle regioni settentrionali buona parte dei servizi vengono svolti da volontari e in Sicilia, al contrario, non c’è autista o portantino che non debba essere pagato. Ma colpa anche d’una filosofia organizzativa che per anni ha anteposto all’interesse dei cittadini, anche nella sanità, la distribuzione dei posti. Col risultato, come ha rivelato pochi mesi fa un’inchiesta di Antonio Fraschilla sulla Repubblica di Palermo , che le 52 postazioni attive «nel 2008 hanno fatto in media meno di 160 interventi: cioè hanno lavorato un giorno sì e un giorno no». Quella, però, è la media. Perché se alcune hanno fatto in un anno oltre tremila soccorsi, altre si sono rivelate abissalmente al di sotto del minimo del minimo. Basti pensare a Erice, dove il centro 118 ha compiuto in media due interventi al mese ed è stato tenuto in vita (coi suoi dodici addetti per ogni ambulanza) nonostante la cittadina sia a 13 chilometri da Trapani. Per non dire di Antillo, un borgo di 1.300 abitanti sui monti Nebrodi, dove il telefono del 118 squilla in media due volte al mese. Può darsi che avere lì ad Antillo un’ambulanza a disposizione rassicuri la gente. Ma è fuori discussione che quella gente sarebbe più tutelata da un 118 informatizzato (sembra impossibile ma non lo è ancora: lo sarà solo ad ottobre) in grado in caso di emergenza di spedire un elicottero e smistare il paziente nell’ospedale giusto, con la sala operatoria giusta, i chirurghi giusti. O no?
di Gian Antonio Stella
tratto da Corriere.it del 28 agosto 2009