La città della solitudine - Live Sicilia

La città della solitudine

La storia di Giusy e degli altri
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4 min di lettura

  C’è un cane piccolo piccolo sul portone della signora che aveva un nome che non le è servito a niente. E’ un cucciolo alla “Lilli e il Vagabondo” dal pelo sdrucito, molle e bagnato sotto una pioggia slavata e cattiva. Lo sguardo è un pozzo di paura animalesca. Ti avvicini. Scappa. Si nasconde dietro la ruota di una macchina. Da lì si inventa un guaito che vorrebbe essere un ruggito.
Via Eleonora Duse, a Palermo. Il palazzo verde è stretto tra un parcheggio e un viottolo che conduce lungo una strada trafficata. Non puoi fuggire senza un mezzo, a piedi non vai da nessuna parte. Sul citofono del palazzetto con i balconi smangiati si legge:  G. Ricottone. G. sta per Giuseppa.
Qualche giorno fa i condomini, qui, sono stati infastiditi da un odore penetrante di decomposizione.  I carabinieri hanno trovato la signora Giuseppa, settantesei anni, distesa nel suo sangue, nella cucina del suo appartamento del secondo piano, scala A. Era morta da un po’, probabilmente da Ferragosto, per colpa di un malore e di una caduta.
Non parlava con nessuno, nemmeno scambiava il chiacchiericcio di rito del passaggio in ascensore. In effetti, non usciva mai. Si sa soltanto che Giuseppa Ricottone sopravviveva con cinquecento euro al mese. Nessuno, dopo il decesso, avrebbe reclamato la salma, destinata alla fossa comune dei Rotoli. I giornali hanno raccontato i fatti in poche righe. “La Repubblica”, nell’edizione di Palermo, si è sforzata di fornire qualche elemento in più. La cronaca, il “dramma della solitudine”, l’apartheid sociale, la foto del palazzo, un cubicolo dal tono “pisello surgelato”. Il commento di un condomino a margine dell’articolo. “Questa morte è una sconfitta per tutti”.

Sbagliato, caro condomino del numero civico 79 di via Eleonora Duse, Palermo, in zona Pallavicino. La vita di Giuseppa è stata una sconfitta tutta sua. Molto di più che un’esistenza invisibile nel finale. Impalpabile, inconsistente, trasparente, apparentemente inutile, fragile, dimenticabile, leggera come una foglia portata via da un vento senza pretese. Una labile traccia. “G. Ricottone”, il nome piantato sulla plafoniera come una bandierina nel nulla, il nome che non è servito a nulla. Almeno, la morte l’ha sottolineato con una cenere di disfacimento e malinconia. Almeno la morte è servita al ricordo, come una crudele vittoria di Pirro.

Da qui non si fugge. Dove mai sarebbe andata la vecchia Giusy con le sue vecchie gambe? Alla destra del palazzo imprigionato nel suo incantesimo solitario, c’è una collinetta agra che conduce a uno slargo di marmitte che scatarrano placidamente. A sinistra si va verso un polveroso infinito, inframezzato da pali della luce e cespugli di rame. La strada verso la città ha bisogno di ruote gommate per essere percorsa fino a un traguardo soddisfacente, fino allo spruzzo di libertà rappresentato dall’insegna-vela di un tabaccaio.

Il palazzaccio della vecchia Giusy è giovane ma brutto. L’intonaco è divorato, bucherellato. Chiediamo notizie di lei alle cose inanimate, perché mai le persone che in tanti anni non l’hanno vista potrebbero riferire pezzi di un discorso sensato. Stava al secondo piano. Due balconi, da tirare a sorte. Quale sarà il suo? Il balcone che volta le spalle al sole ospita due sedie. Una è la classica sdraio, l’altra è una seggiola bianca, distante dalla prima, cioè non sembra messa lì come un poggiapiedi. Sono due sedie che lasciano immaginare due persone a colloquio o in silenzio, a portata ravvicinata di occhiate. Non è il caso di Giusy. Lei era sempre sola. L’altro balcone è illuminato a giorno, nonostante l’interruzione di una pioggerellina. Non ci sono sedie, appena qualche piantina, i vasi di erba grassa che ci vogliono per ascoltare le parole inascoltate di un relitto umano.
 Noi non conosceremo mai più Giuseppa Ricottone. Non avremo scoop utili circa la sua faccia o i suoi lineamenti. Tentiamo l’impresa di non rendere completamente inosservato il suo passaggio. Ora pensiamo di sapere l’identità del suo balcone: quello con l’erba grassa (invece – scopriremo – era quello con la sdraio e la sediolina bianca in attesa di compagnia non pervenuta).

Questa è una storia palermitana. La raccontiamo, sottraendola all’oblio, perché Palermo è diventata la capitale mondiale della solitudine. Nel canovaccio di via Duse, sta scritto in filigrana, meglio che altrove, il destino singolare e individuale di una comunità fiaccata, nascosta dietro le finestre, inerte e divorziata da se stessa.
 Nessuno è immune dal morbo della bruttezza e dell’assenza che ha ucciso Giusy. Non i precari della scuola, non gli anziani, non la gente semplice, non i visionari in cerca di pantere, non i politici, non i poveri e neanche i ricchi, non i disabili. Dentro la cinta urbana della capitale ribolle un lazzaretto di corpi in cerca di contatti, pensieri, respiri e carezze: tesori che non trovano. Sono corpi che, uniti, non fanno più mezza coscienza. Giusy è morta da sola, metafora perfetta, santa patrona del disfacimento civile. Noi crepiamo, giorno per giorno, da soli, nel vuoto, senza accorgercene, senza ribellarci, senza vie di fuga, senza conoscerci tra di noi. E non sentiamo la puzza della decomposizione. 

Così morirà, solo e infradiciato, il cagnolino randagio di guardia al portone di via Duse. Verrebbe voglia di chinarsi e accarezzarlo, sfidando i suoi morsi di gomma e i suoi guaiti di tenero terrore. Ma perché illuderlo  con una irrealizzabile promessa d’affetto? Non ci sono mani tanto grandi e capaci per salvare le anime da questo inferno.  Non ci sono sogni né scodelle d’acqua fresca per alleviare la pena delle creature abbandonate dietro i vetri dello zoo di Palermo.

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