Arrestato in Svizzera| il "pentito di essersi pentito" - Live Sicilia

Arrestato in Svizzera| il “pentito di essersi pentito”

Roberto Di Giacomo, latitante di Gela
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Il latitante Roberto Di Giacomo, 41 anni, di Gela, è stato arrestato in Svizzera dalla polizia. Ex collaboratore di giustizia, poi sottrattosi al programma di protezione, è finito in manette a Berna, grazie all’attività investigativa svolta dagli agenti della mobile di Caltanissetta, Bologna, in collaborazione con personale del commissariato di Gela, e con l’ausilio della Polizia Svizzera. Le indagini sono state coordinate dalla Dda nissena guidata da Sergio Lari (nella foto).

A carico di Di Giacomo – personaggio di spicco della mafia gelese, riconducibile alla ‘Stidda’, nonché fratello di Giuseppe, collaboratore di giustizia ucciso dalla mafia nel ’92, a 25 anni – pendeva una condanna a 16 anni e mezzo inflittagli il 19 dicembre 2007 dalla corte d’assise d’appello di Bologna e passata in giudicato il 4 maggio scorso. Di Giacomo era stato processato per traffico di droga e concorso nell’omicidio di Vincenzo Gumari, ucciso in Vignola l’11 agosto ’92. Temendo l’esecuzione della sentenza, Di Giacomo aveva abbandonato l’Italia per la Bulgaria, paese natale della sua nuova moglie, assumendo il cognome Tschauschev, usando il quale si era trasferito con la sua famiglia in Svizzera, a Lugano, da dove faceva puntate in Italia.

E’ stato indicato come il collaboratore di giustizia “pentito di essersi pentito”. Esattamente come il fratello, Giuseppe, che oggi avrebbe 43 anni se non fosse stato ucciso dalla sua stessa famiglia, il 7 dicembre del ’92, e il suo corpo bruciato in un canale d’irrigazione di contrada Manfria. Entrambi killer dichiarati della “Stidda”, durante gli anni di piombo della guerra di mafia a Gela (1987-1992), erano destinati a fare carriera nell’organizzazione, ma fuggirono in Emilia e cominciarono a collaborare con la giustizia quando capirono che, scoperti, rischiavano l’ergastolo. Giuseppe si autoaccusò del tentato omicidio del dirigente del comune di Gela, Renato Mauro, rivelando che il mandante sarebbe stato lo zio, Salvatore Di Giacomo, coordinatore del servizio di manutenzione municipale, per non aver consentito un trasferimento-promozione. Ma dopo il primo colpo la pistola si inceppò e Mauro rimase soltanto ferito a un orecchio.

La famiglia Di Giacomo non perdonò mai a Giuseppe questo affronto. E quando, in circostanze ancora oscure, una notte, si sottrasse al regime di protezione e tornò a Gela, fu cacciato via dai parenti, ucciso da sconosciuti e bruciato. Aveva 25 anni. Il padre non volle i funerali. Disse che così intendeva punirlo per gli errori commessi in vita. Intanto, le rivelazioni che aveva fatto a magistratura e carabinieri, fecero scattare l’operazione antimafia “Abele”, con numerosi arresti, tra cui gli esecutori del delitto del profumiere Gaetano Giordano. A decretarne la morte sarebbe stato il boss, Orazio Paolello, con una scelta a caso, per reagire al clima di collaborazione che si era creato tra i commercianti locali e la giustizia, dopo la scoperta del libro mastro del racket, avvenuto nel sottotetto di una palazzina popolare di Scavone, il “Bronx” di Gela. La faida di Gela tra “Stidda” e “Cosa Nostra” costò alla città 120 morti ammazzati e centinaia di feriti.


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