Disegnando con i bambini dello Zen - Live Sicilia

Disegnando con i bambini dello Zen

L'inchiesta. La mattina in classe
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Lui ha tredici anni. Vibra una canzone di De Andrè: “Salvate le sue labbra, salvate il suo sorriso. Non ha vent’anni ancora”. La professoressa spiega: “Tutto lo Zen è un grande ghetto. Ci avete pensato? Ci sono sbarre e recinzioni ovunque”. E non capisci mai se siano piantate lì per proteggere, o per impedire la fuga. Lui ha tredici anni: “Voglio fare il giornalista da grande”.

Zona Espansione Nord, abbreviazione Zen. Una classe di terza media, con aggregati di seconda alla scuola “Falcone”. E’ l’istituto sfregiato dai vandali, punito sulla propria pelle con la vernice scarlatta e torvi disegni di bare. Il preside, Domenico Di Fatta, è un uomo colto, bravo e gentile. “Scusi preside, vorrei venire a scuola. A parlare con i suoi alunni. Non vengo come si va allo zoo per complicati studi sociologici. Vengo per guardarli negli occhi e raccontare una storia”. Permesso accordato. Eccomi qua. Una porta blu. Due file di banchi. Davanti le ragazze. Capelli lisci, facce intelligenti, cerchietti, sguardi vispi. Dietro i maschi. Medesima vivezza di pupille, appena più sfrontata. Lo juventino, l’interista, il milanista. Ce n’è uno che tifa Palermo? Risposta in coro: “No”.

La classe è un sottovetro che protegge favole ancora piccole. Alla finestra c’è un cuore rosso disegnato. Una scritta bianca: “Forza Juve”. Sulla parete una carta geografica di una zona del mondo piena di oceani. Accanto al Mare di Tasman una ragazzina ha scolpito il suo nome. Cerca il suo posto in un angolo lontano del pianeta. All’esterno, rombano i motorini di altri ragazzi che hanno seguito un sentiero magari diverso. I casermoni dello Zen sono ombre contigue, un impasto di colori sgraziati, panni stesi e canzoni napoletane. Sono obbrobri che gli alunni della “Falcone” chiamano “casa”.

Lui vuole fare il giornalista. Ha tredici anni e qualche minuto in più. Orecchino. Si infervora: “Fanno così perché non vogliono che lo Zen rinasca”. Azzecca il congiuntivo. Era una risposta alla domanda: perché distruggono la scuola con i raid? E’ la replica tinta di luce dell’alba. Lo Zen rinasce. I barbari scassano a singhiozzo. Piantano chiodi nelle mani e nei piedi della resurrezione. Dalla finestra si vede la pista d’atletica. C’è il campetto di calcio regalato da un benefattore di nome Maurizio Zamparini.

La ragazzina col cerchietto dice: “Siamo esclusi”. La domanda stavolta era sullo Zen, estrema periferia di Palermo. Perché la gente divide lo Zen uno dallo Zen due? L’interrogativo scompone la serenità di una giornata d’aprile. Gli scolari della terza media non lo sanno. Perché? Lo juventino azzarda: “Perché qui non ci sono i servizi”. Qui. Siamo proprio nell’epicentro dello Zen due. La professoressa: “Certe volte la nostra fatica è terribile. Portiamo gli studenti fin dove possiamo. Ma è bello farlo. Si continua con passione. Io mi sono specializzata. Ho master e approfondimenti alle spalle. Sono arrivata alla ‘Falcone’. Alcuni ragazzi mi dicevano: ‘Perché non ti fai fatti tuoi, prendi lo stesso lo stipendio…’. Li ho guardati. Ho risposto: ‘Chi ruba è un ladro’. Abbiamo cominciato a dialogare”. Carramba che sopresa, il professore di disegno (bravissimo) è un vecchio compagno delle medie del cronista. Ci siamo conosciuti alla scuola “Pecoraro”, iper-scuola di piazza Europa. Ci ritroviamo allo Zen.

Un album. Un pugno di colori. “Ragazzi, volete disegnare?”. Quesito muto degli sguardi: che cosa? “Disegnate il quartiere dei desideri, un sogno in cui vivere”. “Lo Zen nuovo?”. “Sì, lo Zen”. “Ma disegni anche tu che sei giornalista?”. “Sì, ci sto”.
Silenzio. Scorrimento delle matite sulla ruvida carta del “Fabriano”. Consegnano a scaglioni. Una ragazza ha scritto, più che disegnato. Le sue speranze: “Dobbiamo cambiare il nostro quartiere”. “Fare capire che la gente dello Zen non fa schifo”. “Il giardino della civiltà. Un luogo in cui vorremmo stare e passare una giornata diversa dalle altre…”.Un altro disegno tutto rosso, con vie, auto e palazzi. Uno ci mette la farmacia e la pizzeria. Uno ci mette i fiori e una figura di bambino che gioca a pallone. Il campo di calcio c’è dappertutto. Su un foglio è sollevato da terra, come se fosse una celeste illusione. C’è un bimbo col pallone in ogni scatto ideale delle mani. Lui che vuole diventare giornalista ci ha messo due alberi, con un buco sulla corteccia. La ragazzina che non ha mai parlato, invece, non ha permesso alle sue emozioni di trasformarsi in colore. Ha abbozzato una casupola e poi l’ha cancellata con una “ics” rosso tenue. Chissà se è lei che ha sistemato il suo nome lontano, accanto all’ignota e verde Tasmania.

La classe è un barattolo chiuso. Fuori c’è lo Zen. Per molti ragazzini questa sarà l’ultima estate dell’innocenza. Li manderanno a spacciare. Li impiccheranno al codice penale (“Cadrà l’inverno anche sopra il suo viso, potrete impiccarlo allora”). Lasceranno il giardino della civiltà, della scuola. Cominceranno a familiarizzare con carabinieri, manette e tribunali. Stamattina è dolce pensare che non sarà  per tutti così.

Suona la campanella.  I miei piccoli amici di due ore incalzano: “Facci vedere quello che hai disegnato”.  Era il patto. Io ho abbozzato, con la stessa tecnica dei dodici anni, un paesaggio sghembo che non si capisce. Devo tradurre le immagini in parole. Ho disegnato quello che mi serve. Un prato con fiori sgorbi. Un cielo azzurro. Un sole senza barriere. Una casetta dal tetto rosa, con il camino e una stradina marrone. Una strada per andare via di mattina. Una casa per tornare quando si fa sera.

(Nella foto il calendario 2010 con i disegni degli alunni)

(quarta puntata)


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