Ladri di futuro, quando l’ansia| diventa paura di vivere - Live Sicilia

Ladri di futuro, quando l’ansia| diventa paura di vivere

Il peggioramento del quadro economico globale ha ingenerato un preconcetto negativo rispetto al domani.

Quando il futuro fa più paura del presente, qualcosa non va; è come se un improvvisato ladro di merendine, per citare Camilleri, si accanisse a rubare al povero. U cani muzzica u strazzatu, recita un efficace proverbio siculo.

Nei fatti, il peggioramento del quadro economico globale ha ingenerato un preconcetto negativo rispetto al domani.

Nel corso del Congresso nazionale della Società Italiana di Psicopatologia, che ha avuto luogo a Milano lo scorso febbraio, sono stati resi noti i dati raccolti nell’ambito di una indagine svolta a cura dell’Osservatorio sulla Crisi della Fondazione Ca’Grande-Policlinico di Milano, nato tre anni or sono, in piena recessione. Il report rivela come si rivolgano al centro soprattutto dirigenti aziendali, commercianti e persino gli operatori socio-assistenziali, evidentemente sopraffatti dalla quantità di richieste di aiuto. Preoccupante è poi l’aumento del numero dei suicidi; a quanto pare, in modo direttamente proporzionale, a ogni crescita di un 10% del tasso di disoccupazione si verifica una corrispondente crescita pari all’1.4% del tasso suicidario. Nei paesi europei, inoltre, come denuncia uno studio sui danni alla salute provocati dalla povertà, è aumentata la mortalità legata all’alcolismo (Kentikelenis et al., Austerity and Health in Greece, The Lancet, 383, 2014).

La stabilità psichica viene messa a dura prova dall’incertezza, in tutti i campi. Privi di speranze, dell’aspirazione legittima alla programmazione del futuro, alla costruzione della propria esistenza, i malati d’un male che oggi appare incurabile, l’instabilità economica (che repentinamente si muta in instabilità sociale e affettiva), sono sempre più fragili e isolati, fino al disagio mentale.

Risulta tracciato, dunque, una sorta di identikit dei ‘pazienti della crisi’, i nuovi malati dell’era contemporanea.

Oltre ai giovani, ai quali la generazione precedente ha rubato il futuro, sono persone che hanno fra i 35 e i 59 anni, mai occupati o disoccupati, troppo giovani per l’età di pensionamento che, in modo subdolo, viene innalzata da un giorno all’altro. E la sicurezza del lavoro è uno dei primi fattori di garanzia della salute mentale, in quanto oltre alla stabilità economica garantisce quella famigliare; la mancanza di occupazione causa uno stress capace di slatentizzare nuove patologie come di aggravare quelle esistenti, non solo psichiche; ad esempio, sono in grande aumento le malattie cardiovascolari, per non parlare di ansia, depressione e alcolismo. Difatti, secondo un recente Rapporto Osmed sull’uso dei farmaci, è esponenzialmente aumentato l’uso di antidepressivi.

Quali sono gli individui potenzialmente a rischio? A detta dello psichiatra Carlo Altamura i cosiddetti ‘pazienti della post-modernità’, caratterizzati da un sé fragile, mostravano, sin dagli anni Novanta, una serie di patologie in crescita, fra le quali dipendenza da sostanze stupefacenti, ludopatia, shopping compulsivo e working addiction. Altamura afferma che possono essere individuate tre categorie di nuovi pazienti: coloro che vivono una situazione di disagio non ancora patologico; i soggetti ai quali già le difficoltà provocano ansia, insonnia e malanni vari; infine i malati mentali, privi ormai di reattività. Solo nel primo caso si riesce ad affrontare il problema contando sulle proprie risorse, mentre, per il resto, occorrono supporti psicologici e medici.

I disturbi psicopatologici in un tempo di diffusa inquietudine, inducono a una riflessione sulle connotazioni della paura, sulle vulnerabilità e sulle capacità di resilienza. Per il professor Alberto Siracusano, ordinario di Psichiatria presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, una delle cause più profonde alla base delle nostre angosce è rappresentata dalla perdita della sicurezza dei legami sociali e familiari. La paura genera i cosiddetti disturbi d’ansia, che sono tra le più frequenti disfunzioni mentali nella popolazione; e il 95% degli italiani ritiene la crisi economica responsabile del loro aumento.

Ma gli italiani sperimentano la paura in quanto sono pessimisti? Forse; e forse hanno qualche ragione.

Alcuni dati. Il 2015 vede gli italiani all’ultimo posto in una ideale classifica europea dell’ottimismo. Continuano a essere preoccupati per la propria situazione economica, anche se cominciano a pensare che il peggio potrebbe essere passato. L’ultima Ricerca Internazionale della Ing, che la multinazionale del settore bancario effettua periodicamente (su un campione di quasi tredicimila persone) per indagare le abitudini di spesa, di risparmio e di investimento della popolazione, riferisce che per gli europei il 2015 è iniziato con una percezione maggiormente positiva della propria posizione finanziaria: coloro che ritengono peggiorata la situazione, rispetto allo scorso anno, scendono dal 41% al 36%. E, in effetti, rispetto al 58% del 2014, oggi ‘solo’ (si fa per dire) il 51% degli italiani ritiene che l’evoluzione del quadro economico abbia determinato un deterioramento delle finanze di cui dispone. Tuttavia gli italiani sono gli unici, tra le tredici nazionalità prese in considerazione dall’indagine, a mantenere una visione negativa dello stato delle cose. In Francia si raggiunge l’equilibrio, in Spagna è negativo il 44% degli intervistati, mentre in Olanda e in Gran Bretagna prevale l’ottimismo (solo il 27% di pessimisti), come pure in Germania (23%).

‘Crisi, giovani senza futuro e politici senza qualità’, titolava nel 2013 un suo intervento su ‘Il Fatto Quotidiano’ lo scomparso Elio Matassi, per il quale, mentre la disoccupazione giovanile italiana contava numeri drammatici e non v’era uomo pubblico che non ne parlasse, la situazione, piuttosto che migliorare, peggiorava di giorno in giorno. Il mondo politico sembra tuttora mostrare una sostanziale incomprensione delle cause alle radici di una crisi che, prima ancora che economica, è etica e culturale. Con grande acume, il filosofo sottolineava come l’intera classe politica avesse ormai abbracciato “la politique d’abord, ossia un modello di semplice amministrazione del presente, espungendo di fatto il futuro dalla propria considerazione. La ‘presentificazione’ del politico è diventata il progetto della classe dirigente italiana senza grandi distinzioni tra centrodestra e centrosinistra”. Nel segnalare quanto stretta fosse la connessione tra una prospettiva di tal fatta e il malessere giovanile, faceva riferimento a un capolavoro letterario dei primi del Novecento, ‘L’uomo senza qualità’ di Robert Musil, che costituisce la rappresentazione delle contraddizioni di una modernità che ha condotto a un impasse senza uscita, e rimane provocatoriamente attuale nella sua tensione, sempre irrisolta, a un ordine; lettura imprescindibile per chiunque avesse ambíto a definirsi, sia pure solo tra le mura domestiche, ‘intellettuale’.

Al di là di possibili astrazioni, Musil disegnava la crisi dell’Impero, quella ‘finis Austriae’ che nel corso d’una rovinosa caduta degli Dei condusse a capofitto alle soglie del primo conflitto mondiale; e raccontava la parabola esistenziale di un giovane matematico alla prese con una irreversibile crisi di valori, tagliato fuori (per rievocare l’efficace locuzione di Stefan Zweig, appassionato e lucido nell’analisi del prossimo crollo di tutto quello in cui aveva creduto) dal ‘mondo di ieri’, privo di qualsivoglia cardine sul quale edificare il futuro. E se nell’uomo senza qualità si incarnava il simbolo di una generazione, espropriata del proprio vissuto, delle proprie qualità, appunto, e persino della speranza di costruire un futuro diverso, anche il quotidiano ci rimanda sensazioni analoghe.

La nostra classe dirigente non sembra distante, per ignavia, dal gruppo di politici dilettanti fotografato da Musil, annaspante nel tentativo di salvare la monarchia asburgica da un crollo annunciato quanto ineluttabile, avvitato su se stesso, incapace di trovare soluzioni. Se mai, si fatica a ravvisare in essa una intelligentsia, sia pure inefficace, come fu quella austriaca, nel mobilitare energie e idee. Nell’uno come nell’altro caso, quando l’interrogativo ‘che fare?’ non trova risposta, il silenzio può assumere un profilo drammatico, e divenire, per dirla con le parole di Matassi, la “cassa di risonanza all’emergere della violenza annidata nel sottosuolo”.

 

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