Poi cominciò | a non morire più nessuno - Live Sicilia

Poi cominciò | a non morire più nessuno

Pubblichiamo il primo capitolo del libro di Riccardo Arena "Anche oggi non mi ha sparato nessuno", edizioni Leima, ultima fatica letteraria del presidente dell'Ordine dei giornalisti di Sicilia e cronista di giudiziaria del Giornale di Sicilia.

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Pubblichiamo il primo capitolo del libro di Riccardo Arena “Anche oggi non mi ha sparato nessuno”, edizioni Leima, ultima fatica letteraria del presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia e cronista di giudiziaria del Giornale di Sicilia.

Poi cominciò a non morire più nessuno.

Perlomeno così sognò, la notte prima che cominciasse tutto. E fu un lungo, strano, insolito incubo. Dimenticato il Grande Dolore, dissolta la Grande Paura, svanito il Grande Terrore, esaurita la Grande Emergenza, terminate le Grandi Malattie, si smetteva di crepare così, senza preavviso.

Non si moriva di morte naturale, non c’erano guerre né terroristi, né pazzi né mafiosi che ammazzavano la povera gente. Non cadevano gli aerei, non affondavano le navi, non deragliavano i treni, non scoppiavano incendi e non c’erano terremoti né inondazioni. Era pure inutile affannarsi con l’acceleratore, perché non c’erano più incidenti stradali, e persino le donne che litigavano con i loro uomini la facevano franca, e chi voleva suicidarsi rinsaviva, o forse impazziva e non si suicidava più; insomma, alla fine, di mortale, c’era solo la noia. Qualcuno trovava in questo la conferma che in fondo la mafia non era mai esistita sul serio e che i jihadisti erano solo dei bravi ragazzi che volevano cambiare il mondo. Ottimismo, ottimismo, si predicava ottimismo dopo la crisi: e se non moriva più nessuno era indubbiamente tutto merito del Governo. Man mano che il sogno andava avanti, però, diventava sempre più terribile.

I giornali, già disperati perché non vendevano quasi niente anche quando si moriva, vedevano nell’improvviso crollo delle morti una manovra del Potere per tagliare definitivamente loro le gambe e provavano il malinconico senso di inutilità di chi non può raccontare nemmeno la cosa più emozionante, coinvolgente e bella che voglia leggere chi vive, e cioè come muoiano gli altri, soprattutto coloro di cui non te ne frega niente.

Di fronte all’emergenza della morte che era improvvisamente sparita, senza troppa sofferenza la cronaca nera veniva abolita, la giudiziaria – con una scusa – dichiarata fuorilegge e incostituzionale, le pagine delle necrologie chiuse mestamente e sostituite da altre destinate ad avere ben poca fortuna, perché nessuno voleva pubblicare, né a pagamento né gratis, notizie liete, che portano solo invidia e guai.

Gli ospizi, al contrario, cominciavano a fare affari d’oro e diventavano più affollati delle scuole elementari e degli asili; figli e nipoti non sapevano più come liberarsi di genitori, zii e nonni divenuti ingombranti a tempo indeterminato. Il Governo, passato il primo momento di entusiasmo, doveva cercare di evitare la bancarotta: così, dopo avere dimezzato le pensioni – ma solo quelle dei poveri, con la scusa che erano le più numerose – aveva progettato segretamente l’eutanasia di Stato per chi aveva più di novant’anni, inventando una serie di scivoli per i casi di anziani proprio insopportabili.

A un certo punto dell’incubo persino i giornali si accorgevano di questa situazione anomala, ma nessuno si sentiva di scriverci su qualcosa, perché, se l’indomani fosse morto qualcuno, vai a toglierti di dosso la fama di iettatore. E poi però la cosa veniva fuori e, come spesso accade, un “buco” veniva dato su una notizia che non c’era, ma sempre “buco” era, e allora tutti erano costretti a scrivere la stessa notizia/non-notizia, e cioè che – cazzo! – non moriva proprio più nessuno.

Da quel momento in poi, come al solito, iniziavano a divampare le polemiche: da una parte c’era chi prendeva posizione a favore del Governo, sostenendo – con inescusabile, ostentata adulazione – che aveva opportunamente imposto il black-out dei trapassi, mentre altri stigmatizzavano la grave anomalia di un’insulsa manovra propagandistica, portata avanti nel segno dell’infondato ottimismo di Stato, perché bastava guardarsi in giro per vedere che era proprio vero: non moriva più un cornuto, e qualcuno doveva pur crepare, perché altrimenti la crisi si sarebbe aggravata.

Nel dibattito, accesissimo, intervenivano preti, sociologi, psichiatri e medici; venivano intervistati – orribile a dirsi – pure gli impresari delle pompe funebri, ormai irrimediabilmente rovinati, e i becchini, del tutto disoccupati. Nei salotti televisivi i rappresentanti del sindacato dei fabbricanti delle bare, esasperati, arrivavano a invocare una guerra, un’epidemia o qualcosa del genere (“Solo così si potrà rilanciare un settore ormai condannato a morte”, dicevano con sfoggio di humour certo inconsapevole) e in tanti sapevano che non avevano tutti i torti: alla fin fine qualcuno doveva pur spirare.

Poi però la gente si abituava alla non-morte, come si era abituata alla morte, diventava una non-notizia pure questa e per la disperazione un giornale, rimasto invenduto il giorno prima, aprì con un titolo in prima pagina che, a caratteri cubitali, recitava più o meno così: neanche ieri è morto nessuno

Studio notarile della Malizia.

Come da volontà espressa dal mio cliente, trasmetto alla S.V. gli allegati documenti da me custoditi.

Preciso trattarsi di appunti personali, ritagli, registrazioni, trascrizioni, atti giudiziari e financo citazioni religiose, raccolte tutte dal mio cliente e che io, notar Mario della Malizia, in virtù del mandato che mi è stato affidato, consegno alla S.V. nella medesima forma e con il medesimo ordine con cui mi sono stati rassegnati.
Distinti saluti
Not. Mario della Malizia

Mi chiamano il Capitano, ma non so tirare i calci di rigore. Avevo solo dieci anni quando, di fronte al primo tiro importante della mia vita, le gambe cominciarono a ballarmi e mi afferrò una fifa blu. Ma fu anche il momento in cui capii di essere un predestinato.

Oggi ho quasi dimenticato il mio nome e il nome del mio Paese. Non ho mai dimenticato, invece, quel tiro dal dischetto: anche perché, in fondo, tutto è successo per colpa di quel rigore. Di quel giorno, in realtà, conservo solo un ricordo vago: eravamo in un campetto di periferia, che più che un campetto era uno spiazzo pieno di ciottoli e di cocci di vetro, dove noi bambini rimanevamo quasi fino a notte, ingaggiando furiose battaglie attorno a un Super Santos per contenderci non si sa bene cosa.

L’immagine che più mi è rimasta in testa è quella del portiere: aveva le ginocchia sbucciate, le guance paonazze e accaldate, le gambe lunghe, flesse e dinoccolate; teneva le braccia larghe, il busto piegato in avanti e gli occhi fissi su di me, serrati in una smorfia feroce.

In fondo non aveva torto a essere incacchiato nero: il portiere era sempre il più scarso della compagnia, e lo mettevano in porta o in difesa perché altrove avrebbe fatto danni inenarrabili. Ma quando c’era un calcio di rigore diventava fondamentale per difendere la porta, cioè quell’area indefinita delimitata da due pietroni e una mezza riga di gesso, con il pallone poggiato per terra tra me, lui e il cielo al tramonto che stava lì a guardarci, talmente rosso che sembrava colasse dalle nuvole il succo di un’arancia sanguinella. Ricordo nitidamente, poi, la mia paura matta di sbagliare.

Stavamo in parità, dopo una partita durata un intero pomeriggio; il buio incombeva sullo scirocco e decidemmo (in realtà decisero i “grandi”, quelli che avevano circa dodici anni) di affidarci ai calci di rigore. Più che un vincitore doveva necessariamente esserci uno sconfitto, ma la parità non si schiodò neppure dopo i primi tiri, e così si andò avanti a oltranza. Io fremevo, perché sapevo che prima o poi sarebbe toccato a me. Quando poi sbagliò giusto l’avversario che aveva tirato prima di me, cosa che rese il mio rigore di importanza fondamentale, mi sentii quasi svenire.

Sistemai il pallone su quella specie di dischetto segnato con una spruzzata di gesso sui cocci di vetro e con la morte nel cuore cominciai a indietreggiare per prendere la rincorsa. Sentivo l’enorme responsabilità piombata addosso ai miei dieci anni, la percepivo nel ghigno malefico del portiere, negli sguardi beffardi degli avversari, in quelli dei miei compagni, che ostentavano finta comprensione, ma erano pronti a saltarmi addosso per festeggiare se l’avessi messa dentro, pronti a saltarmi addosso e basta se avessi sbagliato.

Andai indietro, indietro, indietro fin quasi a uscire dal campo, per la rincorsa più lunga del mondo. Tutti mi guardavano in silenzio, compagni e avversari, senza capire. Poi lo dissi, con un filo di voce lo dissi, ma – nel silenzio di tomba che era sceso sul campo assieme all’oscurità – tutti sentirono benissimo: “Non tiro”. Successe un putiferio.

Mi ritrovai al centro di un vero e proprio tumulto in cui, paradossalmente, gli avversari dovettero difendermi dai miei compagni di squadra. Furono momenti decisamente difficili, perché poi anche i nemici decisero di dare ragione ai miei compagni e mi ritrovai tutti attorno, a urlare e a minacciarmi. D’improvviso, però, le acque si chetarono. Era arrivato lui.

Non gli servì dire o fare nulla; al suo cospetto ogni bocca si chiuse, ogni occhio si abbassò, ogni capo si chinò. Eppure non era un generale o una divinità, e nemmeno un profeta, e in fondo non era né alto né bello: non aveva altra qualità che quella di essere il figlio del capomafia della zona.

Tutti lo sapevamo, eppure nessuno poteva dirlo, ma dovevamo assolutamente e religiosamente rispettarlo; e così lo guardammo in silenzio mentre si avvicinava al pallone che era rimasto abbandonato a pochi passi dalla porta, mentre noi litigavamo, anzi mentre gli altri litigavano con me. Mi guardò con occhi comprensivi – in fondo eravamo amici, anche se io ero figlio di sbirro – e disse placido poche parole: “Non tiri? E che problema c’è? Ci penso io”.

Io non so neppure – perché fuggii a gambe levate, per il senso di impotenza, vergogna e frustrazione che si impadronì di me – come finì, se vincemmo o no, se lui segnò o meno, e prima che questa storia finisca cercherò di ricordarmelo. Ricordo bene, però, che prima di calciare mi guardò, come per dirmi: “Non lo faccio per farvi vedere quanto sono bravo e mafioso e forte e potente, ma per togliere d’impaccio te. Te e basta”. E in quel momento ebbi la conferma: ero veramente un predestinato.

Tweet di un importante uomo politico

#Governo, maggioranza e forze dell’ordine hanno messo in ginocchio la #mafia. Finalmente non è più un’emergenza #malaguardiarestialta

Dichiarazione di un altro importante uomo politico

(captata dalle microspie)

La mafia, certo, ufficialmente non mi può piacere. Ma in fondo in fondo, a me, la mafia che mi ha fatto di male?

Mi chiamano il Capitano perché, anche se non sapevo tirare i calci di rigore, diventai sul serio ufficiale. Ero figlio di sbirro, e anche in questo senso ero un predestinato. Ma ero cresciuto con lui, il figlio del mafioso, e quell’amicizia l’avrei pagata fino in fondo.

Lui era asino e io lo aiutavo a scuola: “Non c’è l’ha faccio”, mi scriveva implorando pietà. Mi rendevo conto che la nostra amicizia, per il figlio di un maresciallo, non era cosa buona e giusta, anche se il prete – che di cose buone e giuste, per mestiere, doveva intendersi alla perfezione – gli riveriva il papà capomafia, e i politici facevano anticamera per parlare con l’esimio genitore e si prendevano pubblicamente le di lui cazziate, se non facevano la di lui volontà, e così sia.

Avevamo dodici anni, allora, e lui fino ai diciassette mi sembrò un ragazzo normale. Asino, ma inspiegabilmente e anche immotivatamente benestante, per non dire ricco sfondato, dunque riverito. Dunque normale.

Fino a quel giorno in cui lo vidi correre fuori dal campo di calcetto, nel parcheggio in cui tutti lasciavamo le nostre macchine e moto sgangherate e lui la sua fuoriserie. Correva disperato, a piedi. Lo stavano inseguendo. Sì, perché allora si sparava e si ammazzava e si moriva pure, sebbene poi tutti se lo siano scordato troppo rapidamente. Erano in due, in motocicletta, resi irriconoscibili dai caschi integrali, e il passeggero impugnava una specie di cannone che gli luccicava tra le mani guantate: quanti ne avevano uccisi così? Lo inseguivano, e lui per la prima volta aveva perso la sua spocchia e sembrava un topo che avesse alle calcagna due gatti più veloci e più forti. Io stavo lì, a pochi metri, in sella alla mia moto. Potevo, come tanti, come tutti, come un intero popolo, far finta di niente, girarmi dall’altra parte e aspettare di sentire gli spari, per accorrere poi a cose fatte e straziarmi dal dolore e dall’ipocrisia.

Vedevo lui, il mio amico del cuore, praticamente spacciato. Una paura dannata mi aveva come paralizzato, dipingendomi ghirigori di sudore freddo sulla schiena, e pensai che fosse la stessa paura di quel pomeriggio. Ritrovai nella mia testa il pallone poggiato per terra davanti alle ginocchia sbucciate del portiere, risentii il rimbombo delle voci di quelli che mi gridavano “Tira! Tira!”, rividi arrivare lui: “E che problema c’è? Ci penso io”, e dentro la mia testa si agitava ancora quella parola, predestinato, predestinato… A quel punto, spinto da non so quale potenza oscura, con un gesto meccanico della mano destra cominciai a far girare il motore, forte, forte, sempre più forte. Lo feci cantare fino a farlo urlare. Poi staccai la frizione, quasi di botto.

Post su Facebook del direttore di un grande giornale.

Ancora, con questa mafia? Ma basta, suvvia! Non avete ancora capito che la mafia che non uccide non fa vendere i giornali? Siamo già in crisi, la gente si abbrutisce davanti alla tv, si spolvera il cervello con le notizie che leggiucchia su Internet e non compra quotidiani e settimanali, la pubblicità cala e dovremmo occuparci di una mafia silente, per nulla evidente e che soprattutto non accoppa nessuno? Ma meglio, mille volte meglio i terroristi islamici! Ma volete mettere la paura che fa un kamikaze integralista, con la sua brava bombarda appiccicata alle palle, rispetto a un cacasotto di mafioso, che si spaventa della propria ombra? Sì, certo: i boss minacciano, estorcono, rubano, si impadroniscono dei grandi affari, fanno sempre i soldi. Ma credete che ancor oggi i poteri veramente forti siano disposti a scendere a patti con un’organizzazione che si è ridotta a essere composta da quattro miserabili?

E poi – suvvia! – basta, basta, basta con le (vere o presunte) minacce, con gli anonimi e i complotti, con i continui allarmi che non fanno altro che alimentare la strategia della tensione. Una tensione fine a se stessa, il cui unico effetto è quello di far credere che la mafia sia ancora forte e in grado di compiere atti eclatanti. Mentre invece è sempre meno potente e si limita a bluffare. Basta, basta, basta con queste continue grida di al lupo, al lupo! Anche le minacce dal carcere del suo capo supremo: ma a chi fa paura, quel signore lì, sepolto da ergastoli e degnamente custodito in una patria galera? Facciamocene dunque una ragione. Non abbiamo deciso noi che la mafia non fa più notizia. Altra storia era la Cosa nostra che aggrediva lo Stato, che attaccava, che uccideva. Ma quella, grazie al Cielo, è acqua passata. Per sempre.

Mi chiamano il Capitano, perché prima diventai ufficiale e poi cominciai a dare la caccia al mio ex amico, divenuto uno dei più importanti latitanti di mafia, in fondo grazie anche a me che gli avevo salvato la vita, caricandomelo sulla moto e riuscendo a seminare i suoi killer. Non ero solo io, il predestinato. Lo era anche lui. Lui che dopo quell’agguato era rimasto sotto choc, più per il coraggio che avevo dimostrato che per la paura di quei due sicari, vite a perdere che ovviamente, nel giro di poche ore, come orribile monito, furono spente, torturate, incaprettate e consegnate al Padreterno e al pubblico ludibrio del popolo di Cosa nostra, nel bagagliaio di una utilitaria rubata.

“Mi hai proprio salvato la vita”, mi aveva detto prima di darsi alla macchia. “Però”, aveva soggiunto, “ti mancarono pur sempre le palle per tirare un calcio di rigore”. Molti anni dopo la vita mi avrebbe presentato il conto per tutto: soprattutto per quell’amicizia che non doveva, non poteva esserci, e invece c’era stata. E forse non era mai finita.

Mi chiamano il Capitano e nessuno – forse nemmeno io – ricorda il mio nome, perché non è bene parlare di chi è disposto a scavare fino a raggiungere le profondità in cui si trova la melma schifosa e puzzolente che nessuno vorrebbe mai portare alla luce. Io trovai la melma e divenni tutt’uno con essa. Perlomeno così si disse. Ma tutto è nato dal fango e tutto finirà nel fango. Io ci entrai testa e piedi e ci lasciai la mia vita, gli affetti più cari e tanti innocenti, e alla fine l’unico risultato che ottenni fu quello di salvare me stesso. Ma dovevo ancora tirare il mio calcio di rigore. Dalla deposizione di un importante pentito di mafia.

Voi potete pensare di avere vinto la guerra contro la mafia e però non potrete dire di avere vinto fino a quando non avrete chiarito e detto tutta la verità sulla cattura di Orchi Cataldo: sì, proprio lui, il capo della mafia, forse l’ultimo vero boss che la mafia abbia avuto. Perché dico il capo e non l’ex capo? Ma perché, avete dubbi che il capo sia ancora lui? Vedete, forse io non so cosa sia la mafia.

L’avevano considerata un fenomeno sociale, una mentalità, un modo di essere, ma io non avevo mai visto un fenomeno sociale che imbraccia il kalashnikov e fa saltare le cervella di prefetti, poliziotti, magistrati, carabinieri, né una mentalità che massacra gli inermi che si ribellano, né un modo di essere che fa saltare in aria la gente che ti combatte. Però in cuor mio mi chiedevo come mai lo Stato, un milione di volte più potente di noi, non riuscisse a distruggerci, come pure avrebbe potuto, come mai non riuscisse a beccare i nostri tantissimi latitanti, specialmente uno che, come il signor Orchi Cataldo, non si nascondeva affatto. Le mie opinioni, però – così mi hanno insegnato quando mi sono fatto pentito – non valgono niente e io devo solo raccontare i fatti che sono a mia conoscenza.

E i fatti, nel caso specifico, furono che tutti rimanemmo di stucco, smarriti, quando catturarono Orchi Cataldo, e per la prima volta ci sentimmo veramente vulnerabili, dopo anni passati a fare quello che volevamo, come e quando e quanto volevamo. Ciò che si disse fra di noi fu che le cose erano andate diversamente da come le avevano raccontate le versioni ufficiali; che non capivamo chi e come avesse fatto catturare Orchi Cataldo; che pensammo a un tradimento, a un patto, e che questa convinzione fu rafforzata dal fatto che ufficialmente, per tanti giorni, nessuno sbirro entrò nel covo. Allora, dentro quella casa, andarono anche alcuni amici nostri e cominciarono a girare tante voci, che in realtà gli sbirri erano andati a prendersi il meglio e che ci avevano lasciato le briciole e la convinzione di aver preso tutto; che un carabiniere era stato sorpreso da altri carabinieri e che era finita male tra di loro stessi…

Del resto, non si è mai saputo, cosa custodisse Orchi Cataldo: se fosse una leggenda il suo famoso archivio, o se fosse vero che potesse usarlo per ricattare il mondo intero. Noi, capi e capetti, non ne sapevamo nulla. Ma anche altri boss più importanti di me, che pure si sono fatti pentiti, non l’hanno mai visto. Hanno mentito? E in questo caso si sono messi tutti d’accordo? No, io dico che non tutti sapevano e sanno. E quasi nessuno sapeva e sa come andarono le cose. Perché, vedete, nella mafia ci sono capi e capi. Orchi Cataldo era un vero capo. Era “il capo”. Gli altri stavano tutti sotto di lui. E certe cose le conosce solo e unicamente lui. Ecco perché – lo ripeto – forse questa verità non la sapremo mai. Certo, c’è una possibilità, una sola, una e basta, che tutto venga chiarito, ma mi viene da ridere al solo pensarci. Perché lui, Orchi Cataldo, non parlerà mai. Mai e poi mai, ci metto la mano sul fuoco.

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