Palermo e la sua era incantata | con Wagner e Roussel - Live Sicilia

Palermo e la sua era incantata | con Wagner e Roussel

Richard Wagner ritratto da Pierre-Auguste Renoir

Così l'immaginazione vaga fra i saloni di questo palazzo liberty, nel cuore di Palermo, e insegue le ombre del passato che s’affollano fra gli stucchi e le dorature, dietro le statue di marmo nell’atrio. (Dal Foglio)

Grand hotel et des palmes
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Certo, a Palermo, per apprezzare in pieno il fascino del Grand Hotel et des Palmes, bisogna ricorrere prima al photoshop mentale: emendare il turista russo con occhi assonnati e calzoncino zumpafosso, ritoccare i contorni abbondanti delle norvegesi solitarie che di prima mattina si ingolfano di cannoli e uova al bacon, cancellare il pannicolo adiposo esondante borsello del gitante dal Wyoming in canottiera. Una volta completato il photoshop, l’immaginazione sarà libera di vagare fra i saloni di questo palazzo liberty nel cuore di Palermo, e inseguire le ombre del passato che s’affollano fra gli stucchi e le dorature, dietro le statue di marmo nell’atrio monumentale e nella galleria che un tempo s’apriva sul giardino tropicale.

Qui, alle Palme, la memoria dei luoghi gronda infatti di ospiti illustri, figure mitiche nell’arte, nella musica, nella letteratura, geni romantici e surrealisti depressi, Wagner, Maupassant, Raymond Roussel, che proprio qui, la mattina del 14 luglio del 1933 venne trovato cadavere, disteso su un materasso poggiato sul pavimento della stanza 224… E se ciò non bastasse a spiegare il fascino dello storico albergo siciliano, ci sarebbe per i palati più ruvidi anche l’ombra del boss Lucky Luciano, giunto qui con la sua amante Virginia Massa nella primavera del 1946, per non parlare del comando dell’Amgot (Allied military government of occupied territory), che confiscò l’albergo durante la guerra per farne il suo quartier generale e la centrale dell’intelligence alleata, col colonnello Poletti, futuro sindaco di Palermo, e il generale Patton. Nel Dopoguerra, poi, vennero gli anni del milazzismo e del governo indipendentista, idea che nacque fra queste mura subito dopo la concessione dell’autonomia regionale, e più tardi, fu quest’albergo la prigionia dorata del barone Giuseppe Di Stefano di Castelvetrano, che visse per mezzo secolo in una suite al secondo piano, per sfuggire alla minaccia di morte decretata dalla mafia in seguito a un misterioso sgarro.

“La storia di questo albergo, notava Leonardo Sciascia nel 1971, è da scrivere come un capitolo di splendore e miseria della Sicilia dai Savoia alla repubblica”. Se ancora nessuno l’ha scritta, è anche vero che l’albergo di via Roma continua a ispirare la fantasia di tanti artisti contemporanei come Luca Trevisani, ultimo in termini di tempo. Artista residente all’Istituto italiano di cultura, selezionato da Laura Barreca per il programma “Le promesse dell’arte”, Trevisani ne ha fatto il filo conduttore di una sua ricerca sui confini mobili tra l’arte e la natura, intitolata appunto “Grand Hotel et des Palmes”. Il progetto, elaborato a Parigi e esposto ora in Sicilia al Museo civico di Castelbuono, scardina le abitudini della nostra percezione, ripristina le incerte frontiere che separano il regno vegetale e il regno minerale, per restituire una prospettiva critica e perplessa nei confronti del reale. Trevisani si serve di antichi erbari, riproducendoli su guanti e calze, trasforma foglie di piante tropicali, ricompone foto di moda e crea strane concrezioni minerali. L’idea è quella di capire il mondo e ricostruirlo riducendolo a immagine, prendendo spunto dalla libertà espressiva di Raymond Roussel e dalle invenzioni paradossali di questo scrittore nevrastenico, autore di “Locus Solus”, delle “Impressions d’Afrique”, antesignano del surrealismo e del nouveau roman, un genio solitario che Macchia considerava l’anti Proust, e che confuse la realtà col suo desiderio, sino a pagare con la vita il lusso del suo delirio letterario.

Oggi però non è lui, ma è Richard Wagner a dare il benvenuto nella hall dell’albergo di Palermo, dal busto in bronzo che lo raffigura al culmine della sua energia. Wagner arrivò a Palermo in cerca di caldo, di sole e di quiete mediterranea, e su consiglio del pianista Joseph Rubinstein scese alle Palme che all’epoca era nuovo di zecca. Era stato inaugurato nel 1877, dopo una prima ristrutturazione del palazzo costruito nel 1856 come dimora di Benjamin Ingham, ricco industriale inglese, la cui famiglia aveva fatto fortuna col Marsala, e rivenduto per 20 mila scudi nel 1874 a Enrico Ragusa, entomologo e figlio del proprietario dell’Albergo Trinacria in via Butera. Il maestro sbarcò a Palermo dal Simeto il 5 novembre 1881, con moglie e figli al seguito. La moglie era Cosima Liszt, la figlia di Franz Liszt e Marie d’Agoult, sposata in seconde nozze dodici anni prima, dopo averne avuto già tre figli, e dopo il divorzio di lei da Hans von Bülow, allievo di Wagner e suo direttore d’orchestra. Della comitiva panormita facevano parte i tre figli della coppia Siegfried, Isolde e Eva, e le due figlie di primo letto di Cosima, Daniela e Blandine von Bülow, la quale, diciannovenne, farà innamorare di lei un aristocratico catanese, Biagio Gravina di Rammacca, con cui poi convolerà a nozze a Bayreuth nel luglio 1882. Fra il seguito dei Wagner, oltre al precettore di Siegried e a due cameriere, c’era anche Paul de Joukowski, il pittore russo conosciuto attraverso Henri James, responsabile delle scenografie del “Parsifal”, ancora in corso d’opera.

Richard Wagner aveva 68 anni, era considerato un mostro sacro all’apice della gloria, quantunque rissoso, ribelle, con alle spalle un’avventurosa vita da esule. Autore di tante opere popolari, aveva rivisitato i grandi temi della tradizione germanica attraverso la saga dei Nibelunghi, ma era un tipo burbero, stanco, depresso, malato. Afflitto da dolori addominali e continui spasmi polmonari, sentiva forse di essere alla fine della sua vita. E infatti sarebbe morto due anni dopo a Venezia, a Palazzo Vendramin-Calergi per un attacco di cuore. Alle prese con l’orchestrazione del terzo atto del “Parsifal”, che avrebbe completato proprio a Palermo, nelle stanze dell’Hotel de Palmes, e in balìa d’ispirazione divina e tirannica, viveva circondato dalle cure della moglie, che ogni giorno registrava nel suo diario l’umore e il cambiamento d’umore del marito genio, al quale aveva consacrato la sua giovinezza, con grave scandalo e riprovazione paterna. Il soggiorno palermitano dei Wagner obbediva a un’agenda implacabile: “La mattina si lavora, a mezzogiorno si passeggia, all’una si desina, alle tre si ripasseggia, alle cinque si lavora, alle sette si pranza e dopo si va a letto”, annotava Cosima nel diario, citando l’intermezzo di letture, Kant, Goethe, ma anche Shakespeare, e in particolare l’“Enrico VI”, che il marito adorava. La composizione del “Parsifal” d’altra parte si alternava con frequenti escursioni in città e nei dintorni, per visitare il duomo di Monreale, meta preferita di Wagner, la tomba di Federico II, la Cappella Palatina, ma anche i Giardini inglesi, la Zisa, la Favorita. L’arrivo di Wagner era stato salutato con grandi civilizie dal jet set palermitano. I Lanza, i Tasca, i Gangi, i Florio, i Mazzarino misero a disposizione le loro dimore, aprirono le porte dei loro palazzi ai concerti del maestro, mentre le loro carrozze sostavano per ora davanti alle Palme, perché loro potessero rendere omaggio al genio.

Fra gli habitué delle Palme c’era una giovane soprano, Tina Scalia, nata esule a Londra e musicista dilettante di rango. Figlia del generale garibaldino Alfonso Scalia, di stanza a Palermo, due anni dopo costei avrebbe rinunciato alla lirica per sposare il nipote degli Ingham, erede della loro fortuna, Joseph Whitaker, detto Pip, l’ornitologo e archeologo che sarà lo scopritore della colonia fenicia sull’isola di Mozia. Colta, ambiziosa, melomane e intellettuale, Tina Whitaker sarà una grande organizzatrice di concerti e serate musicali, oltreché autrice di libri di memorie e saggi storici. Cantò per Wagner e con Wagner, e stando alla ricostruzione di Raleigh Trevelyan pare sia stata anche la primissima interprete di Kundry, la selvaggia incantatrice simbolo del peccato, la schiava di Klingsor che corrompe Amfortas ma viene redenta da Parsifal, nel secondo e nel terzo atto del dramma allora in gestazione. Pur avendo avuto questo privilegio, Tina Whitaker lascerà del maestro un ricordo impietoso, ricordando il fastidio dei suoi applausi fuori tempo, prima che lei finisse di cantare, e le scarse doti umane: “E’ arrogante e imperioso e la sua totale mancanza di sensibilità verso i sentimenti altrui mi parve particolarmente fastidiosa”. I rapporti tra loro erano resi ancora più difficili dal culto della personalità incoraggiato da Cosima. “Ricordo un giorno – continua donna Withaker nelle sue memorie – quando l’andammo a trovare in albergo, il maestro smise improvvisamente di parlare, come se fosse in trance. Donna Cosima subito ci sussurrò in francese nelle orecchie, ‘Penso che il maestro stia per avere un momento di ispirazione, perciò adesso dovremmo porre termine al nostro incontro’. Ci affrettammo a uscire in punta di piedi, senza nemmeno salutarci. Rachele Varvaro, che vive nel palazzo di fronte all’albergo, spiegò poi cosa succedeva quando veniva l’ispirazione. A seconda del tipo di ispirazione, venivano lanciati sulla testa del maestro veli di diversi colori, in modo che le sue visioni potessero essere colorate da queste sfumature”.

Wagner aveva preso alloggio in una grande suite al secondo piano, che oggi, in seguito alla ristrutturazione di Ernesto Basile del 1909, pare non esista più. Il 13 gennaio 1882 finì di scrivere l’orchestrazione del “Parsifal”. L’indomani accettò di incontrare Pierre-Auguste Renoir sbarcato appositamente due settimane prima da Napoli, dove aveva lasciato la musa amante e futura moglie Aline Charigot. Renoir voleva fare un ritratto al musicista più celebre e controverso dell’epoca. A Parigi, città che Wagner detestava, la prima del “Tannahäuser” si era risolta in un fiasco, se si eccettua il plauso di rari geni come Baudelaire. Al centro delle polemiche e del conflitto franco-prussiano, Wagner era circondato dall’aura dell’artista rivoluzionario, dal genio divino: Renoir, appassionato di musica, ne era un grande ammiratore. Dopo varie insistenze, e grazie all’intercessione del russo Joukovski, venne finalmente ricevuto. Di quell’incontro resta una famosa lettera di Renoir. Wagner comparve vestito quasi in abiti talari, con una lunga palandrana di velluto nero e grandi maniche foderate di raso. “Il maestro… E’ bellissimo e amabilissimo, mi porge la mano, m’invita a sedermi e inizia una conversazione pazzesca, frammista di hi, oh, metà in francese, metà in tedesco, Son ben contento, Ah Oh…”. Alla fine, accetta di posare. Renoir si ripresenta l’indomani con tela e pennelli per realizzare il ritratto che oggi si trova al Museo d’Orsay. “Wagner è stato molto allegro, ma nervosissimo e io rimpiangevo di non essere Ingres. Per farla breve, ho sfruttato bene il mio tempo, credo 35 minuti, non sono molti, ma se mi fossi fermato prima, il ritratto veniva bellissimo perché il mio modello alla fine perdeva un po’ di allegria e diventava rigido. Ho seguito troppo questi cambiamenti. (…) Alla fine Wagner ha chiesto di vedere e ha detto: ‘Ah! Ah! Somiglio a un pastore protestante’, il che è vero”. Lievemente diverso, invece, il giudizio registrato nel diario di Cosima. “Di questo singolarissimo risultato R. pensa si direbbe un embrione di angelo, bevuto da un epicureo, come un’ostrica”.

La suite di Wagner alle Palme sarà la meta di un pellegrinaggio di un altro genio della letteratura. Erano passati tre anni. L’albergo aveva ancora il giardino d’inverno, con le piante tropicali, che vent’anni dopo sarebbe stato sacrificato da Basile, che ampliò la hall, e fece intarsiare il soffitto del salone del caminetto come quello di Palazzo Montecitorio, sempre opera sua. Quando Guy Maupassant venne a sapere per caso, parlando su una panchina con un turista, del soggiorno di Wagner a Palermo l’ultimo inverno della sua vita, e scoprì che aveva abitato proprio lì, nel suo stesso albergo e che lì aveva finito di scrivere il “Parsifal”, grande fu la sua curiosità: “Volli vedere l’appartamento occupato da quel musicista geniale, poiché mi sembrava che avesse dovuto mettervi qualcosa di suo, e che avrei ritrovato un oggetto amato, una sedia preferita, il tavolo dove lavorava, un qualsiasi segno indicante il suo passaggio, la traccia di una mania oppure il segno di un’abitudine”. Maupassant era uno scrittore di successo, uno scrittore naturalista attento però al realismo magico, alla poesia delle cose minute, banali, dimesse. Non poteva sbagliare. “Sulle prime, non vidi altro che un bell’appartamento d’albergo. Mi indicarono i cambiamenti che egli vi aveva apportato, mi mostrarono, proprio in mezzo alla stanza, il posto sul divano dove ammucchiava sgargianti tappetti ricamati d’oro. Poi aprii la porta dell’armadio con lo specchio. Ne uscì fuori un profumo delizioso e penetrante, come la carezza di una brezza che fosse passata in un roseto. Il padrone dell’albergo, che mi guidava mi disse: ‘Qui dentro, egli rinchiudeva la biancheria dopo averla spruzzata con essenza di rose. Ormai, quest’odore non andrà più via’. Respiravo la fragranza dei fiori, rinchiusa nel mobile, dimenticata lì, prigioniera; e mi sembrava di ritrovarvi, infatti, qualcosa di Wagner in questa profumo che amava, qualcosa di lui, del suo desiderio, della sua anima, in quel nonnulla di abitudini segrete e care che costituiscono la vita intima di un uomo”.

Del povero Roussel, invece, alle Palme restò poco o nulla. La mattina del 14 luglio 1933, entrando nella stanza 224, su via Mariano Stabile, il facchino ritrovò il corpo senza vita del cinquantenne scrittore che aveva orrore dei capelli bianchi e aveva inventato un sistema infallibile per fare scacco matto. In camicia da notte, mutande bianche, calze nere, maglietta di filolana color champagne, Roussel era supino su un materasso adagiato per terra, davanti alla porta della stanza comunicante, con due cuscini al centro. Strano. Quell’uomo era debolissimo, non si reggeva in piedi, come avrà fatto a spostare il materasso da solo? Come un bambino che avesse avuto paura di cadere dal letto, si era sistemato lì per dormire tranquillo, osserva Leonardo Sciascia, che non ha mai creduto alla tesi del suicidio e trent’anni dopo, negli “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”, ha stilato un lista di incongruenze sospette. Roussel stava per ripartire, voleva farsi ricoverare in una clinica, e quella sera si era imbottito di due tubetti di sonnifero. La stanza era in ordine, ma il cassetto del comodino rigurgitava di barbiturici dai nomi fantastici: 16 flaconi di Somnothyril, 15 di Sonéryl, 10 di Hypalène, 11 di Rutonal, 8 di Phanodorme, una scatola di Declonal, una boccetta di Hyrpholène e un tubetto di Somnothyril, e nell’armadio, in una grande scatola di cartone, c’erano 10 flaconi di Neurinase e 12 di Veriane. E sull’armadio bottiglie semivuote di Veriane, Verodinin, Neurisnase e Neosedan. Inoltre su un foglietto di carta azzurrina erano stati annotati i barbiturici presi da Roussel tra il 25 giugno e il 13 luglio, con dosi, ore, reazioni. Il foglietto era stato scritto da Charlotte Fredez, in arte Dufrène, la donna che da 23 anni viveva con Roussel, in amicizia platonica, e che quella sera, dormendo nella stanza accanto, non si accorse di nulla.

Strano. Roussel abusava di barbiturici, dirà la donna alla polizia, ma era impossibile imporgli un limite, perché diventava irascibile. Giorni prima, aveva già tentato il suicidio tagliandosi le vene e ferendosi col rasoio Gillette. Il medico dell’albergo, Michele Lombardo, non ne aveva fatto parola. Le lesioni, spiegò, erano appena superficiali. Il cameriere Tommaso Orlando, da Salerno, intervistato da Sciascia, raccontò che una sera si vide proporre una mancia di 20 lire per aiutarlo a tagliarsi le vene, ma rifiutò sdegnato, “ No, no Monsieur”. Lo stesso Orlando ricordava con ripugnanza che Roussel quella notte aveva avuto una eiaculazione, un particolare che gli era rimasto impresso, e di cui non c’era traccia nei referti giudiziari.

Anche Roussel era venuto a Palermo attratto dal clima mite, dalla luce mediterranea, ma soprattutto dal porto franco che la città offriva al commercio di medicinali. Era un nevrastenico drogato, omosessuale e depresso, “un pauvre petit malade”, dirà lo psichiatria Pierre Janet che lo ebbe in cura. Figlio di un ricchissimo agente di cambio, era un viaggiatore indefesso, a bordo dell’elegantissima roulotte nera che si era fatto costruire ad hoc e dalla quale non usciva mai, perché la luce del sole gli dava fastidio, e perché più che la realtà esterna gli interessava inseguire un mondo tutto suo, l’universo dei deliri che portava in se stesso. “Chez moi l’imagination est tout”, diceva infatti, lavorando sull’inconscio e la scrittura automatica, formando miti a partire da combinazioni insulse delle parole, e sognando di creare un organismo indipendente e autosufficiente, libero dalla sua debolezza. La realtà vera era un’altra. Amareggiato dal fallimento di La Doublure e dall’insuccesso delle altre sue opere, voleva catturare la gloria, almeno nell’estasi della creazione o delle droghe, e per questo aveva scelto di condurre vita ritirata, ermetica, solitaria, in balia della sua immaginazione, e accanto a una donna schermo, una demi-mondaine che serviva a salvare le apparenze. Da quaranta giorni, alloggiava all’Hotel et des Palmes abusando di calmanti, sonniferi e ansiolitici per placare la sua nevrastenia, passando dall’euforia alla depressione.

Ogni sera il misterioso autista reclutato a Parigi lo portava in giro per la città. Di quest’autista non si seppe più nulla. Scomparve come un fantasma senza figurare nemmeno negli atti, salvo poi riapparire per ricattare il nipote, duca di Echlingen, figlio della sorella e unico erede dello scrittore. Strano. E ancor più strana, sottolinea Sciascia, quell’inchiesta speditiva della polizia fascista, su quella morte che venne subito archiviata come suicidio, di uno scrittore in un albergo siciliano la notte del festino di Santa Rosalia, e nel giorno in cui si concludeva la trasvolata atlantica di Italo Balbo. Fatto stranissimo, quasi irreale, tant’è che serve a spiegare come mai per trent’anni il Grand Hotel et des Palmes continuò a fungere da destinatario di moltissime lettere e missive indirizzate a Raymond Roussel, come se la sua morte non fosse stata altro che fatto letterario, un’invenzione immaginaria, un ultimo capitolo, inedito, di “Locus Solus”.

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