Palermo e la "miseria" di Cosa nostra | Se la città è malata di mafia - Live Sicilia

Palermo e la “miseria” di Cosa nostra | Se la città è malata di mafia

Una veduta panoramica di Palermo

I vecchi padrini non sono più in circolazione, sepolti da condanne pesantissime. Insomma, lo Stato ha fatto la sua parte. Eppure l'appeal di Cosa nostra non conosce appannamento.

PALERMO – È nella miseria che la mafiosità si svela in tutta la sua drammaticità. La cronaca recente ci costringe a fare i conti con l’essenza di una città. Palermo è malata nelle sue viscere. Non ci può essere altra spiegazione.

Cosa nostra è stata fiaccata nell’ala militare. Capi e gregari sono via via finiti in cella. È vero, qualcuno è pure tornato in libertà. Ma nello stesso momento in cui ha messo piedi fuori dal carcere è stato braccato e il più delle volte arrestato di nuovo. Sono i soliti noti. E altri, c’è da giurarci, li seguiranno. I vecchi padrini non sono più in circolazione, sepolti da condanne pesantissime. Insomma, lo Stato ha fatto la sua parte. Eppure l’appeal di Cosa nostra non conosce appannamento. Lo spessore criminale dei nuovi boss, lo dicono gli stessi investigatori, si è abbassato e con esso il livello delle istanze che arrivano dal territorio.

Il contrabbandiere di sigarette o il fruttivendolo chiedevano “una cortesia se era possibile” ad Alessandro D’Ambrogio, reggente di Porta Nuova. C’era chi voleva vendere “sigarette di contrabbando… in piazzetta”. E D’Ambrogio era magnanimo: “Si metta qua e si guadagni il pane”. Sempre a Porta Nuova, più di recente, i pescivendoli del Capo invocavano l’intervento di Paolo Calcagno e Giuseppe Ruggeri, considerati i nuovi vertici del clan, quando qualcuno abbassava i prezzi della merce per attirare la clientela. E no, non si fa. A Tommaso Natale qualcuno aveva “osato” fare concorrenza sleale al figlio del boss Silvio Guerrera, un illustre sconosciuto, oggi pentito, divenuto in fretta e furia il reggente di una delle più potenti famiglie mafiose della città. Come? Parlando male della qualità dei suoi polli allo spiedo. Finì che il rosticciere fu costretto a chiedere scusa.

Ed è di fronte questua di Cosa nostra, alla miseria di tutto ciò che emerge la drammaticità di cui sopra. Drammatico è, infatti, che ci si rivolga ancora ai mafiosi, o pseudo tali, per le istanze più spicciole. Oggi come ieri qualcuno ritiene più facile o peggio conveniente rivolgersi al mammasantissima di turno piuttosto che allo Stato per fare valere un proprio diritto. Siamo al radicamento nella società di quella mentalità mafiosa che ha reso forte Cosa nostra. Un’essenza che non è stata vinta nonostante la valanga di arresti. Il cuore della questione è quello di sempre: la repressione da sola non basta.

Non per questo, però, dicono investigatori, bisogna cullarsi, credendo che la battaglia sia vinta. La repressione resta necessaria perché “è dalla massa che escono fuori i nuovi capi”, come dice un magistrato capace di lucide analisi. Guai a distrarsi, specie in un momento in cui la mafia è tornata con prepotenza a investire nella droga – i soldi del pizzo, seppure incassati a tappeto, non bastano più – e ha dimostrato di essere capace di eliminare i riottosi o di tagliare i rami secchi in maniera chirurgica con il piombo. E poi, siamo davvero sicuri che il passato sia davvero tale? Ogni tanto salta fuori un professionista come l’avvocato Marcello Marcatajo – e non è il solo – che avrebbe riciclato per una vita i piccioli dei clan Graziano-Madonia-Galatolo. Piccioli frutto degli investimenti di trent’anni fa. La verità è che in molti casi si è arrivati troppo tardi a scovare nel presente i rivoli denaro del passato. E cioè quando ormai i soldi hanno fatto chissà quanti e quali passaggi che li hanno resi puliti. E sono serviti per aprire una miriade di attività commerciali. Le stesse dove ciascuno di noi si reca per le spese quotidiane.


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