Il dolore che imprigiona | La 'cura' dei social - Live Sicilia

Il dolore che imprigiona | La ‘cura’ dei social

Facebook e la sofferenza più grande che c'è.

Il diario di Valerio
di
3 min di lettura

Non esiste forma più intima di dolore di quello altrui.

Parlarne, scriverne, addirittura misurare il tempo che vi si dedica nell’affrontarlo nella speranza, talvolta vana, di superarlo può denotare arroganza, mancanza di tatto e di delicatezza.

Eppure, esaurito l’effetto delle parole di conforto e delle presenze di coloro che ci sono più vicini con il loro carico di promesse e di auspici o, semplicemente, di silenzi comprensivi, l’ultima frontiera della sofferenza può divenire la sua condivisione con chi ci è estraneo e, soprattutto, è estraneo a tutto il nostro patire.

Essa appare l’ultima cura da sperimentare, l’unica che può offrire, se non sollievo, almeno conforto nella consapevolezza che altri, come noi, vivono confinati nel ricordo che incombe nelle lunghe notti senza sonno.

Sentiamo l’esigenza di sfuggire alla nostra prigione privata, alle sue pareti che proiettano immagini così familiari eppure intollerabili; di sottrarci al silenzio squarciato da voci e suoni che solo noi possiamo sentire; di allontanare quegli oggetti inanimati che continuano a raccontarci la quotidianità di chi ci è stato strappato via a forza, degli affetti ai quali siamo sopravvissuti o, semplicemente, di chi abbiamo perso senza più ritrovarlo.

Proprio quando quel vuoto non si attenua ma continua inesorabilmente a scavare, sempre più a fondo, attirandoci in un soffocante abisso di disperazione che neppure immaginavamo potesse esistere, non resta che aprire il cuore anche agli altri, agli estranei.

Spersonalizzare ciò che ci affligge può aiutare a rendere quell’invincibile fardello almeno più tollerabile così che il dolore cessa di essere solo un fatto privato, e diviene per una scelta libera e consapevole qualcosa di diverso, ma esattamente cosa?

La propria sofferenza viene affidata alla comprensione altrui, alla diversa sensibilità che altri sono in grado di esprimere e di offrire.

Come in un caleidoscopio, tanto più la si allontana da sé, tanto più essa appare scomporsi, perdere identità, divenire sempre più rarefatta, leggera quindi, almeno all’apparenza, sopportabile.

E’ difficile definire i contorni di questo aggrovigliarsi di sentimenti intimi ancor più che privati, ma diviene impossibile stabilire come approcciarsi ad essi quando vengono affidati allo sguardo invasivo dei social.

Ci ritroviamo coinvolti nel dolore altrui con tutto il carico di speranza e frustrazione che l’accompagna, partecipiamo al racconto di storie e vicende che ci appaiono familiari pur nella loro assoluta estraneità al nostro vissuto.

Se non esiste un limite al dolore che siamo in grado di sopportare, possiamo imporne uno a quello che condividiamo?

Esiste una misura oltre la quale non dobbiamo coinvolgere gli altri nella sofferenza di una nostra perdita?

Ci sono parole, pensieri, immagini che meritano di essere custodite esclusivamente entro il perimetro inviolabile del ricordo personale?

Nello spazio sconfinato ed impersonale dei social non può, e forse neppure deve, essere fissato alcun limite che non sia quello dettato dalla propria coscienza e dalla propria sensibilità.

Non dovrà mai, quindi, provenire biasimo verso chi – attraverso la condivisione dei particolari più intimi del proprio figlio perduto – cerca di giungere a quella verità che non potrà mai trovare nelle aride pagine di una sentenza da parte di chi, invece, vorrà ricordare l’affetto smarrito vestito del suo più bel sorriso.

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