Cara Giulia, ora sei ministro | Non scordare le persone - Live Sicilia

Cara Giulia, ora sei ministro | Non scordare le persone

Non perdiamo l’occasione, non possiamo permettercelo. Lettera al ministro della Salute.

Garofalo all'occhiello
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Cara Giulia,

quella sera di quindici anni fa, a Roma, in pizzeria, un cameriere dai modi garbati e dalle fattezze orientali ci disse in perfetto romanesco, distogliendo il nostro sguardo imbarazzato da un menù scarsamente assortito: “Fàmo la mejo?” “e qual è la ‘mejo’?” chiesi io. E lui: “rucola, pomodorino de Pachino (no de Pechino, aggiunse ridendo), scaglie de grana e ‘nsacco de artra robba”. “Famo la mejo” dicesti tu, e i più aderimmo alla tua scelta. Saremo stati cinque o sei; oltre te e me c’era Mauro, “facente funzione” di primario vicino Milano, Paolo, ginecologo di Napoli, e qualcun altro che non ricordo.

In quelle mattine di quindici anni fa frequentavamo il Master del Gemelli, in Bioetica. C’eravamo convinti così. Qualcosa ci aveva persuasi che per esercitare l’arte del medico non bastava la Medicina. C’era bisogno di “altro”; ci serviva, e tanto, un sapere “altro”, apparentemente lontano. La dottrina della Scienza, dove tutto è inquadrabile tra “vero” o “falso”, doveva appoggiarsi alle esigenze della Coscienza, dove tutto è declinabile tra “bene” o “male”. Intuimmo certamente io e te, i due medici siciliani di Palermo e Catania, che il mondo sanitario (e non solo quello) stava cambiando, aprendosi a scenari forse pericolosi. Ne avemmo la certezza alla fine. Cara Giulia, in quel corso si parlava di genoma – ricordi? – di ingegneria genetica, delle “technologies” nella pratica medica, e della necessità sempre più forte di “humanities”; pensavamo che qualcosa stesse sfuggendo tra le mani.

Ed era vero, e lo è tuttora. Ma si parlava anche di sofferenza e di umanità, di corsie e di cure intensive. Si discuteva di sguardi vuoti di medici e pazienti, di incomunicabilità, di rabbia e di solitudine. Ci si animava sulle scelte difficili. Si interpellavano i padri del pensiero antico, sottoponendoli alle moderne inquietudini, perché non ci sembrava che il tempo moderno potesse avere la forza di stravolgere e distruggere i principi fondanti dell’uomo, quelli essenziali, quelli veri. Il tempo è solo un’astrazione: il passato può essere chiamato ad indicare la strada buona all’imprevedibile presente.

La sera tornavamo quasi sempre dal “cinese”, dove le pizze cambiavano ma “la mejo” restava uguale. Le discussioni spesso continuavano anche a tavola, ma non sempre: cominciammo anche a scherzare e a ridere, con la leggerezza dei compagni di scuola, che ristorava le nostre intense e cariche giornate. E il primo anno scivolò via così, nella sorpresa di vederci arricchire di nuove prospettive, di nuovi approcci, di un modo più moderno e paradossalmente più antico e saggio di esercitare la professione del medico: in scienza e coscienza.

Cara Giulia, il secondo anno ci vide amici, non più semplici compagni di classe e di avventura. Già dopo gli esami del primo anno parlavamo un linguaggio diverso, quel corso ci stava segnando profondamente. Durante le pause andavamo in libreria, all’interno del “Gemelli”, dove io cercavo qualcosa da portare a casa ai bambini, per farmi perdonare l’assenza delle settimane. Tu un giorno mi consigliasti di regalare “ET”, quello di “telefono-casa”, un “cult”, mi dicesti, adattissimo ai miei bambini; ancora oggi se lo ricordano. Ma la sera ci ritrovavamo sempre dal “cinese”, per una consuetudine che ci rassicurava. E il mondo girava, preparando il presente, come dicevo.

Oggi lo vedi anche tu, carissima, quel presente invadente, preannunciato dal passato. Si nasce sempre meno, ma si nasce meglio, nel comfort delle moderne sale-parto, curando l’affetto dell’accoglienza ed il contatto amorevole di madri e figli. Ma si muore sempre più e troppo spesso male, frequentemente nell’alienazione di abitazioni surrogate – le case di riposo – dove non si riconoscono più le mura proprie e il proprio modo di abitare e di vivere. Le relazioni vitali sono sostenute su quella progenie, anch’essa surrogata, che non è fatta dai figli propri, ma da donne sconosciute, dagli improbabili nomi slavi: le badanti. “Finte” case, “finti” figli. Finto amore. Ti ritrovi anziano e qualcuno ti dà del tu senza sapere chi sia, o chi fossi stato; qualcuno ti dà del tu perché “mangia, bello! Su, da bravo, mangia! Ma che bravo! Tu ora dormire, senza rompere scatole, come altra notte, d’accordo?”. E una medicina insufficiente si limita a proporre “venti gocce, prima di andare a letto”, annegando nella sua insignificanza.​

Carissima mia, l’avevamo capito; lo capiamo ancora oggi. C’è molto da fare, perché l’ultima parte della vita, così spesso lunga, non sia una tortura per chi la vive in prima persona. E c’è moltissimo da fare anche per chi, da figlio, figlia, parente prossimo di un anziano ammalato, è costretto da un sistema-capestro a darsi da fare per organizzare, piazzare, depositare il proprio congiunto nella condizione più dignitosa: non c’è solo l’anziano familiare problematico, c’è pur sempre la propria vita, il lavoro, i figli, il coniuge, c’è una casa da mantenere e da portare avanti; c’è persino una vacanza legittima e doverosa, di qualche giorno appena, da organizzare, da vivere, finalmente, ad agosto, ma immersa tra sensi di colpa.

C’è sempre di più la necessità di coprire spese mediche aggiuntive, quelle che il servizio sanitario non può sostenere, costringendo il paziente a sopperire alle mancanze con una mano al cuore (spesso malato) ed una al portafoglio (spessissimo indebolito).

C’è, infine, da affrontare il distacco, perché si muore. Prima si rincoglionisce – e si capisce perché, negli ambienti surrogati delle case di riposo, o con il conforto commerciale delle badanti – poi si muore. Un percorso consequenziale, una fine preceduta da un inevitabile soffrire.

Carissima, ricordo la mestizia dell’ultimo giorno. Qualche ora dopo i saluti in aula, eravamo io e te alla stazioncina di Trastevere, in attesa del trenino che ci avrebbe portato all’aeroporto. Ricordo anche le tue parole, e il desiderio forte che tutto non finisse lì, che ci fosse un seguito, che “… dobbiamo fare insieme qualcosa, Roby, qualcosa per questa società. Ci vuole un’iniziativa, qualcosa di bello, qualcosa di grande!” E io ti ascoltavo disincantato, mettendo avanti le nostre distanze: Palermo-Catania mi sembrava troppo scomodo, fra lavoro e altri impegni, nella prospettiva di costruire “qualcosa di grande”. No, non ci credetti. Ci abbracciammo fra un tuo “…allora, a presto!” e un mio “speriamo…” Il mondo cui appartenevamo ci aspettava.

Cara Giulia, ti ho rivista qualche giorno fa. Firmavi solennemente nelle mani del Capo dello Stato l’impegno più grande: Ministro della Salute. Ho rivisto entusiasmo e convinzione, quelli di qualche anno fa. Non sei cambiata, Giulia. Anche se adesso l’onere ha assunto dimensioni nazionali. Sta a te dimostrare che quest’avventura non sia avventurismo; che l’indubbia onestà non sia un fine, ma un indispensabile mezzo; che dopo la protesta venga anche la costruzione. “Famo la mejo”, Giulia, non perdiamo l’occasione, non possiamo permettercelo. C’è un’eccellenza tutta siciliana, che non è solo quella dei pomodorini. Anche adesso il mondo cui apparteniamo sta aspettando.

 

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