Sbarco di marziani? | No, il 'ciaffico' - Live Sicilia

Sbarco di marziani? | No, il ‘ciaffico’

Una giornata indimenticabile per gli automobilisti.

Garofalo all'occhiello
di
7 min di lettura

“La mi scusi, ma ill’è sempre hosì, da voi?” Il tipo, dai natali inconfondibilmente prossimi all’Arno, si è accostato quasi distrattamente al mio vicino di marciapiede, con fare disinvolto; allude al blocco del traffico che ci sta paralizzando da un po’. L’interlocutore, certamente un indigeno panormita, un “picciotto”, lo guarda con aria di sufficienza, ma visibilmente infastidito. Poi risponde: “No; ogni tanto”. Bravo! E che diamine! A domanda stupida, risposta adeguata!

La verità è che il tempo si è fermato. Macchine immobili, motori spenti, il moto lento ma perpetuo del traffico palermitano si è arenato come una colata lavica che si rapprende, spegnendosi lentamente. E non è mica la prima volta. Caspita, se non lo è! In questo anonimo pomeriggio di fine agosto, senza validi motivi di sciagura, senza esodo da scenari di guerra, senza emergenza di transumanza alcuna, siamo un unico, lungo, inquietante serpentone di auto, che parte dal Foro Italico e va verso l’infinito e oltre.

Siamo tutti fermi, tutti: il toscano, il “picciotto” al mio fianco, centinaia, migliaia di persone in macchina, attoniti. Ma consapevoli, almeno noi indigeni, di vivere un ennesimo deja vu: l’eternità dell’ingorgo a Palermo. Ecco la cronaca. Ore 17,30. Mettendomi in macchina il traffico sembra regolare, anzi, fin troppo liscio; siamo ad agosto, penso, molti sono “ai villini”, in città siamo di meno, per questo si cammina così bene. Ore 17,45. L’appuntamento con Rob è alle sei e un quarto; quando sono le cinque e quarantacinque ti senti a posto, puntuale come un orologio svizzero.

Di colpo, o quasi, l’imponderabile: al Foro Italico il traffico rallenta, sempre di più, ancora, ancora. Stop, ci blocchiamo tutti. Da un finestrino di fianco al mio un tipo esterna una delle espressioni più pronunciate dall’automobilista palermitano medio: “incidente ci fu”. Poi, uscito dall’auto ferma, i piedi entrambi sul predellino, di fianco al sedile, con il palmo della mano di taglio sulla fronte, a scrutare orizzonti lontani, si rende conto che la fila antistante è lunga, quindi aggiunge: “mii, grave fu!”.

Non era vero, ma non poteva saperlo. Quando si forma un ingorgo, quasi mai è nota la causa certa, il più delle volte nascono spontaneamente le ipotesi più disparate: sciopero, fuga di gas, sbarco di extraterrestri a piazza Politeama, eccetera. Ore 18,00. Così, fermi. Come un mese fa, in circonvallazione, prima del ponte Corleone, per i lavori di manutenzione. Anche allora fermi, in interminabili ore sotto il sole, a macerare di sudore e schiumare rabbia, ragionando su percorsi alternativi da prendere la prossima volta, che passassero dalle montagne, da valli lontane, da territori estremi, che portassero a Messina, poi a Roma, poi in Svizzera, poi su Marte. Purché si potesse scappare da quell’inferno di scatolette al sole. Poi qualcuno alzò l’ingegno e spostò i lavori del ponte agli orari notturni, e l’inferno sfumò. Chi è chiamato a coordinare queste operazioni? Perché costui, chiunque esso sia, Sacripante apostolo, non ci ha pensato prima, di far eseguire i lavori di notte? Decisamente, questa non è una buona estate, per i ponti.

Ore 18,20. Ancora qui, fermi. Provo a telefonare a Rob, scusandomi per il ritardo. Lui comprende, gli dispiace. Mi chiede da cosa possa essere causato questo caos secondo me, ma non ho risposte. Pochi minuti dopo sono fuori anch’io dalla macchina. Tutto è surreale, a poco a poco tutte le auto spengono i motori. Passeggio sul marciapiede che mi sta accanto; dopotutto sono in riva al mare, farei bene a stemperare rabbia e guadagnare una rassegnata tranquillità. La Cala è tutta uno svettare di alberi delle imbarcazioni ormeggiate; il tramonto è fresco. Sono momenti preziosi, dai; si corre sempre, non capita spesso di doversi fermare. Sono sempre dei fattori esterni che ti costringono a farlo, non dovrebbe essere così.

Ore 18,50. Stai li a cercare di riconquistare un serafico equilibrio yoga, per non lasciarti andare alle esternazioni più scomposte e sconvenienti, quando avverti che quella pace che tenta di stendersi come un velo di seta sulla tua anima, ha dei limiti. Uno su tutti: la prostata. Cominci ad avvertire un certo disagio che ti impone di muoverti con composta frenesia. Un disagio ancora lieve, ma presente. Le macchine addossate l’una all’altra, ferme nella loro eternità, non lasciano spazio ad espedienti di nascondimento e di facile esaudimento del “bisogno”. L’unica cosa che “bisogna” avere è la pazienza infinita di aspettare. ​

Ore 18,55. Finalmente, una spiegazione: “Sono i TIR che si stanno imbarcando al porto”, ti dicono. E tu immagini migliaia di enormi, pachidermici, lentissimi TIR che entrano solennemente in porto, e molti si imbarcano, occupando tutto lo spazio disponibile delle grandi navi veloci. Quando, infine, il tempo d’imbarco diventa così eternamente diluito, immagini che evidentemente i TIR sono troppi; dove li mettono, tutti questi? Forse non tutti potranno imbarcarsi; forse alcuni metteranno fuori dei grossi alettoni sotto, e si trasformeranno in aliscafi loro stessi, pronti a guadagnare il largo del Tirreno, non ci sono altre spiegazioni.

Ore 19,00. Su un poderoso SUV, poco distante da me, vedo una giovane donna in atteggiamento concitato al cellulare. Occhiali scuri, le unghie sono i fotogrammi di un cortometraggio giapponese, tutto fiorellini colorati. Ora scende dal suo autotreno con la mano incollata al cellulare. Freneticamente si avvicina al “picciotto” di prima e, con la mano ad indicare la lunga fila di macchine, si lascia andare ad un’espressione di mirabile spessore surreale: “scusi, ma quanto dura?”. L’interlocutore riduce ulteriormente il già lento movimento masticatorio, a bocca semiaperta, di una chewing-gum, quindi si rivolge a qualcuno, poco lontano da lui: “Vicè, dice la signorina quanto dura?”. “Assai” risponde un “Vicè”, da una macchina un po’ più avanti. Quindi lui, grossolanamente accattivante: “Assai, signorina”. Lei ritorna sbrigativa dentro la sua postazione mediatica dell’auto e riprende le connessioni. E si consuma così un gustoso siparietto di ordinario, irresistibile misto di sarcasmo e seduzione.

Ore 19,15. Un tipo di mezza età si agita un po’, camminando avanti e indietro. Le nuvole, nel frattempo, sono lo specchio fedele di quanto si svolge sotto di loro: ferme anch’esse, in un’incipiente precipitazione temporalesca che però non comincia mai, lanciano tuoni e fulmini sempre più insistenti, proprio come noi, fumanti, annuvolati e carichi protagonisti costretti agli arresti veicolari, sotto di loro. Fermi noi, ferme le nuvole. Il tipo agitato è certamente un collega di prostata. Chiude la macchina con il telecomando, quindi mi rivolge un fantastico “scusi, me la guarda la macchina?”. A qual punto, attraversa correndo dall’altro lato ed entra in un esercizio di pani c’a meusa. Dopo un po’ esce rilassato. Mi ringrazia, ma non so di che. Sono io a ringraziare lui perché mi fornisce la soluzione del mio disagio, che nel frattempo era cresciuto sensibilmente.

Ore 19,30. È già trascorsa un’ora e mezza. Ma finalmente davanti a me si muove qualcosa, c’è un segnale, un cenno: si sente l’accendersi di un motore. Accogliamo la notizia con ammirata commozione, come se ci avessero detto che su Plutone c’è vita. Tutti di corsa dentro le auto, cominciano lenti, roboanti movimenti di liberazione. Qualcuno, sul bordo dello spartitraffico di sinistra, si lancia nella furbata di salire sul marciapiede (trunk – trunk) e di scendere dall’altro lato, sulla corsia opposta (trak – trak), e via, controcorrente. Io resisto alla tentazione di fare altrettanto, meditando quanto sia dura la vita degli onesti, ma presto vengo premiato: guadagno la svolta a sinistra sulla strada del ritorno e sono un uomo libero! Cammino, e guardo dall’altro lato la fila interminabile che sto lasciando. Respiro. Guardo il cielo e vedo che comincia a piovere: adesso siamo tutti liberi, in un unico movimento cosmico, noi rilasciati dopo un interminabile sequestro, avendo pagato un cospicuo riscatto; noi prigionieri delle stesse macchine che dovrebbero assicurarci il libero movimento. Noi, come le gocce della pioggia che finalmente sta venendo giù. Nel pomeriggio del giorno dopo viene fuori la verità: l’ingorgo è stato determinato da un “allarme – bomba” al porto. Mi incupisco, pensando di essermi trovato nel posto sbagliato, al momento sbagliato, ma in fondo mi è finita bene.

C’era un posto ancora più sbagliato, per tutti quelli che si sono trovati sulla strada di veicoli lanciati sulla folla, sulle metropolitane, sugli autobus e nei locali pubblici delle stragi. È difficile vivere nel mondo degli ingorghi, che è anche il mondo delle tragedie; è difficile trovare soluzioni ai fastidi della vita quotidiana, che è anche la vita dei disastri inattesi. È difficile trovare il modo giusto di convivere, è davvero difficile amarsi.


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