Cult, violenza e ostentazione I segreti della mafia nigeriana

Cult, summit e violenza|I segreti della mafia nigeriana

"Grande capacità di inabissamento", parla Maria Cristina Fatuzzo, dirigente della sezione Criminalità Straniera della Mobile etnea.

CATANIA – La mafia nigeriana è una realtà criminale che non bisogna sottovalutare. Sono organizzati, strutturati e radicati. In pochi anni, fratellanze e cult sono riusciti a insediarsi in quasi tutta la penisola e anche in Sicilia.

La mafia nigeriana a Catania

A Catania la Squadra Mobile ha documentato la presenza nel territorio etneo e calatino di violente gang e cult che hanno creato ‘insediamenti’ con riti, affiliazioni, gerarchie e affari criminali. Una mafia nera e violenta che si muove in modo quasi sotterraneo, ma la Polizia di Catania negli ultimi mesi ha affinato le tecniche investigative riuscendo a infliggere duri colpi ai Vikings, agli Eiye e ai carismatici Maphite. 

Tre indagini della Squadra Mobile

Una delle conoscitrici della diffusione della mafia nigeriana a Catania è Maria Cristina Fatuzzo, dirigente della Sezione Criminalità Straniera della Squadra Mobile etnea. “Negli ultimi tre anni abbiamo fatto tre indagini – spiega a LiveSicilia – coordinate della Procura di Catania che ci hanno permesso di addentrarci in questo mondo criminale molto complesso”. 

Maria Cristina Fatuzzo, dirigente della Sezione Criminalità Straniera della Squadra Mobile

I Vikings e gli Eiye

La prima indagine, quasi il ‘battesimo investigativo’, è stata quella contro la fratellanza dei Vikings che aveva creato un vero e proprio quartier generale al Cara di Mineo, ormai chiuso. Un’inchiesta lampo: cominciata a novembre 2018 e con i fermi eseguiti a gennaio 2019.

“Si trattava più che altro di una gang: giovani molto spregiudicati e violenti. Lei deve pensare che al capo abbiamo anche contestato una violenza sessuale che avrebbe perpetrato al Cara. Avevano un modus operandi meno evoluto con linguaggi più decifrabili. Nello stesso periodo abbiamo svolto un’inchiesta, che è un po’ passata in sordina, su un altro gruppo della mafia nigeriana che è quello degli Eiye. Anche loro avevano come attività illecita principe il traffico di droga – spiega la dirigente Fatuzzo – ma avevano creato un linguaggio in codice soprattutto per indicare lo stupefacente. Gli Eiye hanno base a Castel Volturno (nel casertano, ndr), che la possiamo un po’ definire la capitale della mafia nigeriana in Italia”.

Il pentito nigeriano

Il cambio di passo rispetto al poco conosciuto mondo dei cult mafiosi nigeriani arriva nel maggio 2019, quando su input di alcune rivelazioni di un collaboratore di giustizia è stata avviata l’indagine sui Maphite che sfocia nell’operazione Lighthouse of Sicily della scorsa estate. 

I Maphite

“Abbiamo iniziato ad indagare sui Maphite e abbiamo immediatamente capito – spiega Maria Cristina Fatuzzo  – che avevano un modus operandi molto più evoluto. Una capacità di inabissamento molto strategico. La loro accortezza nelle comunicazioni e nei movimenti è stata causata anche dalla pressione che hanno sentito da parte della Polizia italiana. Dalle intercettazioni emergeva chiaramente. “Non si può più stare in Italia” dicevano. In quel periodo, in particolare, c’erano state le operazioni delle Procure di Torino e Bologna. 

La gerarchia del cult

Da una parte, dunque, i Maphite hanno cercato di blindare comunicazioni e movimenti, dall’altro la Polizia ha affinato le tecniche investigative. Il cult Maphite, acronimo di Maximo Academyc Performance Higly Intellectual Empire, ha una propria gerarchia territoriale. Ai vertici c’è il Don, poi i responsabili di zona e i vari gregari.

“Abbiamo scoperto anche una figura particolare – argomenta Fatuzzo – che noi chiamavano l’intelligence del gruppo. Era colui che si assumeva la responsabilità di veicolare alcune informazioni e comunicazione”.

La segretezza del Don

Il Don, che secondo la ricostruzione investigativa, viveva a Caltanissetta quando veniva a trovare il capo catanese non lo avvertiva, ma comunicava il suo spostamento all’intelligence. E durante la trasferta, c’erano gruppi a staffetta che bonificavano il percorso. I vari incontri avvenivano di notte e con preavvisi minimi.

Ma a novembre dello scorso anno, i poliziotti di Catania, grazie al lavoro straordinario degli investigatori delle sezione e delle interpreti in sala d’ascolto, sono riusciti a seguire in diretta un summit in un ristorante alle porte di Messina. Una riunione che serviva a far rientrare nel cult un affiliato dopo un periodo di carcerazione. “Lei deve pensare che avevano un servizio di vigilanza privata”, commenta la funzionaria di Polizia. 

La bibbia verde

I Maphite hanno una sorta di libro delle regole, la cosiddetta ‘bibbia verde’.  “Il testo è stato trovato dai nostri colleghi delle altre procura, ma nella nostra indagine – spiega Fatuzzo – abbiamo avuto il riscontro dell’osservanza dei alcune regole. E se da una parte c’è l’obbligo a stare attenti alle comunicazioni, dall’altro c’è il bisogno di ostentazione per manifestare potere e forza del cult”.

L’ostentazione dei Maphite

Questo viene fatto molto sui social. “Dal monitoraggio di facebook è stato scoperto un video in cui uno dei capi cantava tutti i nomi dei Don che si erano susseguiti e inoltre si riconoscevano le caratteristiche delle riunioni. Una sorta di rito dove gli affiliati bevono Courvoisier, fumano e  c’è la presenza delle prostitute. Dai social – spiega ancora – siamo riusciti anche a scoprire  le celebrazioni dell’11 maggio che la festa dei Maphite”. 

I reati sentinella

Con una strategia così nascosta è importante individuare i cosiddetti reati sentinella. “Ci sono dei reati che oggi leggiamo in un altro modo e che possono nascondere in alcuni casi anche scontri tra cult. Una rissa tra extracomunitari, un banale furto di un telefonino ai danni di uno straniero, un’aggressione. Oggi sappiamo che non dobbiamo sottovalutare nulla, anche perché – spiega Fatuzzo – molte volte dalle indagini abbiamo documentato proprio il coinvolgimento dei cult nigeriani”.

Nel 2016 ad esempio ci sarebbero stati tensioni tra cult per la gestione dei joint (gli spazi) per la prostituzione in strada. Un mondo anche questo in piena evoluzione e che avrebbe un nesso con la mafia nigeriana. 

Il ruolo delle donne

Le donne nei cult avrebbero un ruolo anche se di secondo, se non di terzo, piano. Molte sono utilizzate come trolley woman per il trasporto di droga. Anche se per far arrivare lo stupefacente in Sicilia, soprattutto eroina, sono utilizzati gli ovulatori.

La massomafia nigeriana

“I narcotrafficanti però non sono affiliati ai cult, ma sono a loro disposizione”, spiega Fatuzzo. Anche perché il loro scopo è quello di fare soldi. Uno di loro però sarebbe stato una sorta di “massone” della mafia nigeriana. Da notizie riservata è stato scoperto che apparteneva alla confraternita Rof (Reformed Ogboni Fraternity) “che è una sorta di massomafia nigeriana”. L’ovulatore sarebbe stato interpellato da un cult per intraprendere rapporti anche burocratici necessari a portare in Nigeria la salma di un importante appartenente. 

“Nessun dialogo con le mafie autoctone”

La mafia nigeriana dunque prende sempre più piede, ma le forze investigative italiane che condividono le informazioni stanno riuscendo a colpirle duramente con arresti e retate. Dalle inchieste al momento però non “emergono interessenze” tra mafie autoctone e cult nigeriani. “La guardia comunque resta alta”, conclude Maria Cristina Fatuzzo. 

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